Joseph Kosuth, Neon, Who’s afraid of red, yellow and blue exhibition from 17 February to 20 May 2012 at la maison rouge, Paris, France
L’analisi intrapresa nel mio intervento precedente, e che sto qui proseguendo, pone maggiore attenzione all’aspetto materico dell’esecuzione pittorica, aspetto che costituisce il fulcro dell’identità della pittura e della sua espressione, ci avvieremmo altrimenti su di un percorso di astrazione dove le testimonianze pittoriche non sono espresse e analizzate nella loro oggettività materica, ma sottoposte a riduzioni di ordine concettuale. Il dipinto è un oggetto fisico che si avvale della materia pittorica a fini espressivi. È il differente impiego di tale materia che fa assumere significati diversi alla singola opera pittorica e che costituisce il differente alfabeto espressivo e stilistico dei singoli autori. Non considerare questo aspetto imprescindibile delle testimonianze dell’arte pittorica equivale ad astrarle dalla loro concreta esistenza ed essenza. Un pittore quanto ha da dire non può che incarnarlo nella materia pittorica di cui fa uso e nella gestualità esecutiva che a essa assegna. La pittura è materia fisica sia nella sua testimonianza a posteriori, quale oggetto musealmente o privatamente conservato, sia nell’atto esecutivo che la compie e per il quale l’autore, appunto, ricorre a materie e gestualità che le donano aspetto e significato.
Porre la questione in questi termini significa contrapporsi all’astrazione duchampiana che vuole l’idea prima dell’esecuzione, il pensiero sopra la materia e che nell’atto di spostamento dal luogo di funzione a quello della galleria vede compiersi il ready-made, mettendo in luce la volontà divina dell’artista al quale basta compiere l’atto di indicare o nominare l’oggetto per assolutizzarlo ad arte. Egli pronuncia il verbo e l’atto si compie (aspetti approfonditi in Il processo di astrazione nell’età contemporanea all’interno del blog https://www.danilosantinelli.it/danilos-blog/2-il-processo-di-astrazione-nelleta-contemporanea/). Ma il discorso, così come lo stiamo ponendo, risponde in realtà anche a un’altra questione a essa intrinseca. Se cioè abbia senso ancora oggi ricorrere alla figurazione e alla pittura, e seppure abbia un senso, in cosa questa nuova area si differenzi dal ritorno in auge della pittura che già nel corso degli anni Ottanta dello scorso secolo si è verificato.
Malevich sostenne che ciò che, ancora ai nostri giorni, continua a essere definita pittura astratta fosse invece corretto definirla pittura concreta o oggettiva, dal momento che non finge di essere altro da se stessa, ossia pura superficie dipinta, spazio all’interno del quale si collocano forme e colori, per medesima ragione aveva abbandonato la figurazione quale linguaggio di rappresentazione illusiva e dunque, esso si, astratto. Il ragionamento malevichiano, pur essendo razionale e puntuale, non fa che sottolineare la finzione di un singolo codice, quello pittorico. Dimenticando peraltro che tale osservazione potrebbe essere estesa agli altrettanti codici di umana creazione, tramite i quali comunichiamo e interpretiamo il mondo, codici che ci accompagnano sin dall’infanzia e che sono l’ossatura della nostra educazione, nonché della nostra evoluzione: essendosi l’uomo avvalso di strumenti esterni, fisici e cognitivi, che gli consentissero di adattare il mondo alle sue esigenze, anziché adattare il proprio corpo all’ambiente come avviene per le altre specie animali. L’esistenza umana è costellata da un insieme di codici fittizi d’intesa tra gli individui, i quali consentono lo svolgimento delle comunicazioni e delle attività sociali: a partire dalle lingue geografiche di appartenenza, ai codici d’intesa temporale e spaziale, alle strutture sociali e di scambio economico. Portare questa posizione alle sue fedeli conseguenze inficerebbe la validità di tali codici d’intesa sociale, nonché lo stesso percorso evolutivo della nostra specie. Possiamo certamente discutere sulla validità o meno di tale processo, della sua giustizia etica e ambientale, ma certamente non possiamo riavvolgere il nastro della storia come nulla fosse. Sempre che tali posizioni non costituiscano una modalità di acquietamento delle coscienze, vie di lenimento del senso di colpa rispetto agli errori compiuti lungo il percorso evolutivo. Hanno un bel dire coloro che sostengo che essendo l’uomo un prodotto della natura, vada ritenuto tale anche ciò che egli compie, alla luce di oggi, di quanto sappiamo e abbiamo visto compiere all’uomo, tale posizione, appunto, appare tanto più una via di lenimento della coscienza. Una presa di posizione puerile di chi non intende assumersi le responsabilità dei propri atti. Come si vede, quest’astrazione riguarda anzitutto l’uomo. Questa è la difficoltà di orientamento umano nella sua ancestrale ricerca di senso: egli impiega strumenti e codici fittizi, che non sempre o necessariamente sono idonei ad una corretta lettura e indagine che svelino i quesiti che da sempre si pone rispetto all’universo e all’esistenza.
Se dunque ci poniamo il quesito sull’effettiva validità dei codici d’interpretazione e intesa sociale umani, la posizione di Malevich è giustificata solo in direzione di un’astrazione dal contesto storico-evolutivo umano. Se questi codici, quali strumenti di condivisione, li riteniamo aspetti imprescindibili – seppure fallaci e come ogni nostra espressione in movimento – dell’essenza delle attività e dell’identità umana, allora il presupposto malevichiano perde molto del suo senso nello smascheramento di un dato di fatto: i codici umani non sono la realtà. In tale direzione molte delle letture critiche che inseguono presunte modernità, che su tali principi poggiano, a loro volta s’indeboliscono tendendo a rivelare invece la loro astrazione da un contesto più ampio dell’umano e della sua fragile essenza. Poiché il problema esiziale compiuto dalla critica risiede in questo: tenere buoni alcuni presupposti, come quello malevichiano o duchampiano appunto, non collocandoli nel contesto più ampio dei codici umani quali strumenti evolutivi e di rapporto interpretativo rispetto l’universo che lo circonda, venendone a costituire la sua storia ed essenza. In sostanza la critica coattivamente ripete e moltiplica l’astrazione già in atto nel processo della contemporaneità, facendosi essa stessa autoreferenziale nella sua impossibilità o incapacità di collocare i fenomeni storico-artistici in un quadro più ampio della storia e dell’esistenza umana.
Va poi considerato come l’osservazione malevichiana ci costringa a riconfrontarci con il concetto di mimesi nelle sue due contrapposte interpretazioni: la prima di ascendenza platonica e la seconda aristotelica. Platone condanna la mimesi quale menzogna che imita le cose, dove le cose stesse sono a loro volta imitazione dell’idea. L’idea platonica necessariamente si lega agli interrogativi che l’arte del Novecento si è posta riguardo il ruolo della rappresentazione: a partire proprio dal ready-made duchampiano, passando dalla serie di dipinti mgrittiani dal titolo La condizione umana, per approdare alla serie di lavori kosuthiani One and Three Chairs, One and Three Lamps, ecc. Questi pochi esempi potrebbero prolungarsi a dismisura, ma in ogni caso pongono l’opera quale provocatorio interrogativo sul senso della rappresentazione e del fare artistico, proprio quale codice interpretativo della realtà. E secondo il quale la rappresentazione, quale imitazione della realtà, non può che essere condannata: avvicinandoci sempre più al sopravvento dell’idea, del processo e dell’atto – come già sottolineato da Rosenberg (Harold Rosenberg 1906-1978) – che squalificano l’oggetto e la sua esecuzione e sapienza tecnica. In Aristotele assistiamo invece a una rivalutazione della mimesi quale strumento di perseguimento della forma ideale, dove la creazione artistica è assimilabile alla creazione naturale. In questo caso sono irrinunciabili i rimandi – già citati nel precedente intervento – all’ellenica regola aurea quale metro costruttivo, architettonico e artistico, e al suo ritrovato vigore rinascimentale, nonché all’ideale ricerca strutturale condotta da Cézanne e dai cubisti.
Per tali ragioni gli assunti per i quali determinate posizioni artistico-espressive risulterebbero più moderne o innovative rispetto ad altre andrebbero riveduti, con particolare riferimento all’arte visiva all’interno della quale hanno assunto maggior peso e generato perplessità e confusione nell’opinione sociale. Come già in precedenza mi rifaccio ad alcune delle osservazione di Corrado Maltese, il quale, già alla metà degli anni Settanta del secolo scorso, aveva ben compreso l’equivoco innescato dalle cosiddette correnti fredde, sentendosi dunque chiamato a puntualizzare cosa specificatamente fosse definibile come arte e storia dell’arte, mi scuso sin d’ora per la lunga citazione che appare però, a questo punto, indispensabile.
«[…] il vecchio raggruppamento di arti che il Rinascimento italiano da Francesco di Giorgio Martini al Vasari ha indicato come arti del disegno e che la cultura del tardo Settecento e ottocentesca ha indicato in Francia con l’appellativo beaux-arts, in Inghilterra fine arts, in Germania bildende Künste e in Italia arti figurative (che vuol dire arti della modellazione e produzione di oggetti plastico-pittorici e grafici e non della rappresentazione iconica, come molti credono) ha avocato a sé un carattere paradigmatico o esemplare con tanta imperiosità e con tanta autorità che quando si parla di storia dell’arte s’intende quel gruppo e soltanto quello e quando si vogliono comprendere spettacolo, teatro, musica, cinema, ecc. si parla di storia delle arti, al plurale.
[…] ma questa lascia adito a qualche equivoco: un’incisione si apprezza a mezzo della vista, così come un film, ed entrambi sono arti che implicano una separazione del prodotto dall’attività producente. Tuttavia c’è ancora una profonda differenza tra le due: il film deve essere guardato in un tempo assolutamente coincidente con quello in cui viene proiettato [o visionato tramite le nuove tecnologie], le informazioni che contiene vengono indirizzate allo spettatore secondo un ordine di successione che è esattamente quello che lo spettatore è costretto a seguire, insomma è un evento temporalmente delimitato. L’incisione, invece, emette – in adeguate condizioni – le sue informazioni tutte assieme e indipendentemente dallo spettatore e può essere guardata per una frazione di secondo o per qualche minuto e in un momento scelto dallo spettatore stesso. Insomma l’incisione, a differenza del film, è un oggetto, i cui limiti sono definiti spazialmente, mentre il tempo (durato) d’osservazione è fisicamente indipendente dal tempo (durato) di presentazione. È proprio questa oggettualità, unita alla concomitante nettissima separazione tra prodotto e attività producente, che ha fornito una base quasi incrollabile alla tipicità delle ‹arti figurative› come arti per antonomasia.
Per procedere in questa direzione dobbiamo però riconoscere che finora abbiamo fatto largo uso del termine arte e arti, ma che in realtà abbiamo soltanto preso in considerazione le forme separabili dall’attività che le produce e, in quell’ambito, le forme oggettuali. Ciò non implica ancora in nessun modo un chiarimento su ciò che costituisce la loro artificialità (in opposizione alla loro eventuale non artificialità o naturalità), la loro artisticità (in opposizione alla loro eventuale non artisticità), e nemmeno la loro esteticità (in opposizione alla loro eventuale non esteticità). Cioè di fatto abbiamo ipotizzato un universo di forme-oggetti percepibili e intellegibili, che abbiamo, in ossequio alla tradizione, specificato come architettura, scultura, ecc., ma che a rigore potrebbe comprendere anche un tronco d’albero, il ciottolo di un torrente, un cristallo di neve, una montagna, un nido d’ape o una stella. È vero che abbiamo fatto capire senza dirlo esplicitamente che le forme-oggetti prese in considerazione nella storia dell’arte sono forme prodotte da una attività umana e quindi dovrebbe essere chiara la loro artificialità. Tuttavia questa apparentemente semplice e quasi lapalissiana affermazione pone una serie di problemi molto imbarazzanti e la sua verità è stata contestata abbastanza vivacemente proprio dall’arte contemporanea.
[…] i cristalli di un geode sono per l’esperto il prodotto di un ben preciso evento geologico, mentre nel profano possono suscitare il dubbio che siano stati progettati e prodotti dall’uomo; viceversa certe erosioni sulle pietre di Hiroshima possono apparire frutto di eventi naturali magari sconosciuti, mentre a chi conosca gli effetti di una esplosione atomica si rivelano immediatamente come la tragica opera, per qualche aspetto non voluta o prevista, di menti umane.
In conclusione l’attribuzione della genesi di una forma alla attività di questa o quella forza fisica o chimica, di questa o quella forza animale o umana, è possibile sempre e soltanto laddove si conosca o si possa dedurre almeno schematicamente il processo genetico (reazione chimica, operazione tecnica, ecc.) che l’ha prodotta. Il che significa che è possibile solo nelle proporzioni consentite dall’esperienza di chi si trova a dover ‹leggere› la forma in questione. In conseguenza il giudizio sulla ‹artificialità› (in quanto prodotto cosciente umano) di una forma non dipende da condizioni fisse insite nella forma stessa, ma da condizioni estremamente variabili della esperienza di chi giudica e della tecnologia di chi l’ha prodotta.
[…] La ragione è che si caratterizza come artistico un procedimento tecnicamente esemplare e perciò tipico. Dunque è artistico ciò che è ‹artificiale›, ma anche, al tempo stesso, esemplare. S’intende perciò come si sia formato il concetto di capolavoro e come di esso non si possa fare a meno, sempre che si viva in una società basata sullo scambio delle informazioni oltre che dei prodotti. Infatti perché un oggetto valga come tecnicamente esemplare occorre che sia esibito più o meno pubblicamente e che qualcuno possa apprezzarlo come tale, e abbia perciò una certa esperienza della tecnologia che è all’origine dell’oggetto in questione. Occorre cioè che l’oggetto comunichi, e che si costituisca un ponte tra il livello di informazioni del produttore e quello dell’interpretatore. Laddove il dislivello è nullo o è troppo forte non si ha comunicazione: l’oggetto non appare esemplare (non ‹emerge› sulla media), non aggiunge nulla (non ha ‹originalità›), oppure appare incomprensibile e perciò estraneo (‹sarà un capolavoro, sarà originalissimo, ma non lo capisco›). Ciò accade effettivamente sia per gli oggetti d’uso, sia per gli oggetti che hanno soltanto lo scopo di rappresentare altri oggetti o idee che vi si connettono. I congegni interni di un televisore non comunicano nulla o quasi a chi non ha un minimo di informazioni sull’elettronica […]. Ma anche i quadri di Mondrian o di Vasarely non comunicano nulla o quasi a chi non ha un minimo di informazioni sui valori simbolici delle forme pittoriche.
[…] Se ogni oggetto artificiale che è al tempo stesso artistico si presenta necessariamente anche come ‹estetico›, non tutto ciò che è estetico è anche necessariamente artistico o artificiale. Nel linguaggio comune un bel tramonto ha indubbiamente un valore estetico ma non è opera umana né animale né tanto meno artistica, se non nel senso della creazione biblica. In ogni caso diciamo estetica ogni forma, statica o in divenire, che si presenti in concomitanza di condizioni (inerenti sia la forma presa a sé che l’interpretatore preso a sé) tali da richiamare l’attenzione sulle proprie qualità immediatamente percepibili.
[…] Tuttavia esiste un limite anche nella gamma delle forme che lo stesso individuo tranquillo e ottimista può trovare belle e degne di contemplazione: tutte le forme che non allargano il suo orizzonte esistenziale, ma lo lasciano inalterato o, peggio, lo restringono, cioè tutte le forme che si presentano come indifferenti o negative, gli appariranno inevitabilmente fastidiose, brutte, da evitare e quantomeno prive di interesse percettivo. Cioè saranno giudicate non estetiche (o non belle) e perciò prive di potere liberatorio.
[…] cioè bello e esteticità sono, ancora una volta, come artificialità e artisticità, valori non assoluti ma relativi, e relativi precisamente al contesto socio-culturale del momento. Le forme liberatorie si presentano indubbiamente come modelli (macro e micro-modelli) di libertà e perciò forme-pilota del gusto, ma sono forme-pilota perché sono liberatorie prima di tutto per il gruppo o per i gruppi sociali egemoni, per le cui condizioni esistenziali sono appropriate e per le quali sono state prodotte. Questo non significa che le forme-pilota non possono contenere un valore liberatorio universale, valido cioè anche per i gruppi e le classi sociali subalterni, ma ciò è possibile solo nella misura in cui la loro condizione subalterna venga a cessare. In mancanza di ciò, bellezza ed esteticità troveranno sempre, nei gruppi e nelle classi sociali subordinate, vie diverse e subalterne per realizzarsi e continueranno, sia pure in forme limitate, a realizzarsi, almeno finché la dimensione ludica degli uomini, cioè la loro esigenza di liberarsi, almeno per qualche momento, dal mondo dei fini o della strumentalità (che alla sua base ha poi l’esigenza di allargare costantemente il proprio orizzonte esistenziale) non sarà stata per ipotesi definitivamente soppressa.» (Corrado Maltese, Guida allo studio della storia dell’arte, [1975], Milano, Mursia Editore, 1988)
Maltese, come si vede, conduce un’analisi ferrea sulle definizioni e i valori che noi assegniamo ai fenomeni percettivi, distinguendone le varie nature e definendo i concetti di arte, capolavoro, storia dell’arte, storia delle arti, artificialità, esteticità e artisticità. Non si tratta di un esercizio di mera elucubrazione, ma di definizioni necessarie a definire i limiti di una data disciplina e indispensabili per lo studioso della stessa, nonché elementi altrettanto indispensabili all’intesa e alla comprensione sociale nel trattare determinati argomenti, senza i quali non ci intenderemmo nell’atto dello scambio informativo. Maltese ci tiene, infine, a sottolineare come tali valori siano intrinsecamente legati all’esperienza dell’osservatore e alle condizioni socio-culturali storiche.
Il linguaggio visivo, come quello di altre discipline artistiche, richiede una consuetudine che consenta di accedere, mano a mano, a contenuti più complessi. Non consiglieremmo mai a un profano della musica di iniziare con l’ascolto di Music for 18 musicians (1976) di Steve Reich (1936) ad esempio. Né consiglieremmo a un profano della letteratura di iniziare con la lettura dell’Ulisse (1922) di James Joyce (1882-1941). L’affinamento del palato di uno spettatore, lettore o ascoltatore progredisce in base alla sua familiarità con quel dato linguaggio. Tale affinamento lo condurrà alla comprensione di strutture più complesse o meno consuete del linguaggio stesso. Se incontriamo un conoscente all’uscita di una sala cinematografica e gli domandiamo cosa pensi del film appena visionato, il più delle volte ci sentiamo raccontare il soggetto del film accompagnato da impressioni personali, dimenticando la presenza della macchina da presa, delle inquadrature, del sapore atmosferico e cromatico della fotografia, della colonna sonora, del montaggio, ecc. Non conoscere questi aspetti della struttura cinematografica non impedisce allo spettatore di vedere il film, ma certamente non gli consentono di comprenderlo appieno o analizzarlo per ciò che esso è in realtà. Egli sta fruendo un linguaggio del quale non è cosciente e dal quale, emotivamente e inconsciamente, riceve informazioni. Egli può goderne esteticamente, ma non è nella condizione di poter scegliere non discernendo la natura e il significato di quell’informazione. Anche allo spettatore sono necessarie delle competenze.
L’evoluzione e la comprensione del linguaggio sono un aspetto presente nella vita di ognuno di noi sin dall’infanzia. Lo sforzo che compiamo per orientarci e camminare nello spazio urbano, per orientarci temporalmente secondo la scansione oraria e calendaristica, per parlare e comunicare con gli altri, sono tutti esempi di come il nostro percorso evolutivo si basi sulla conoscenza di un insieme di codici. L’apprendimento scolastico della grammatica italiana ci consente di fruire e comprendere contenuti testuali sempre più complessi. Questo l’aspetto che fa narrare al nostro conoscente, all’uscita della sala cinematografica, il soggetto del film anziché dar conto dell’uso degli elementi espressivi cinematografici. La nostra formazione scolastica è basata fondamentalmente sulla conoscenza delle strutture linguistico-letterarie. Difficilmente a scuola si apprendono, con lo stesso grado di approfondimento, gli aspetti linguistici musicali o visivi. Ne deriva che il nostro conoscente è portato, per formazione, a fruire e interpretare il testo cinematografico secondo canoni letterari del tutto inadeguati. In qualsiasi scuola, prima di avvicinarci alla storia letteraria, apprendiamo gli elementi grammaticali della lingua. Non è stessa consuetudine, ad esempio, avvicinare lo studente alla storia dell’arte, o all’espressione dei testi visivi più in generale, tramite l’apprendimento della grammatica visiva.
Per tali ragioni (come già dissi nell’intervento introduttivo al blog https://www.danilosantinelli.it/danilos-blog/due-tre-cose-sul-blog/) le grammatiche visive dovrebbero essere scolasticamente diffuse, un aspetto che si allaccia a doppio filo alle problematiche introdotte dalle pratiche postmoderne, e in assenza delle quali si corre effettivamente il rischio di ledere le possibilità di scelta democratica degli individui.
L’impoverimento e scadimento culturale prodotto dal pensiero e dalla rinuncia postmoderna determinano un conseguente rischio dello scadimento e della possibilità di comprensione delle forme più complesse, conducendo a un appiattimento sulle forme banali e spettacolari improntate alla mera apparenza. Pratiche che determinano la sottrazione di quelle competenze imprescindibili nello spettatore per accedere a determinati codici linguistico-espressivi.
Le pratiche di non-pensiero e depauperamento dell’immaginario (più dettagliatamente descritte in Moderno, postmoderno, altermoderno, l’immaginario nell’epoca contemporanea all’interno del blog https://www.danilosantinelli.it/danilos-blog/parte-prima-moderno-postmoderno-altermoderno-limmaginario-nellepoca-contemporanea/) condotte dalla postmodernità tramite l’interruzione del rapporto tra ricerca artistica ed emancipazione sociale, per volgersi al solo ruolo di valore di mercato, ha determinato la conseguente crisi e scomparsa delle tradizioni e dei valori storici che si palesano oggi nella vita sociale e politica. Contrassegnata essenzialmente dall’assenza di rimandi, legami e continuità, anch’essa espressa come momentaneità a sé stante, al pari dei fenomeni tipici dell’espressione postmoderna nella loro interruzione della catena, passato presente futuro. Vita sociale e politica dimentiche delle provenienze culturali, civili e ideologiche, anch’esse improntate all’affastellamento incondizionato e acritico di materiali erede dei linguaggi della postmodernità. Per tali ragioni le nuove generazioni, che nell’ambito dell’espressività artistica operano, tanto strenuamente vi si oppongono, nel tentativo di riannodare quei fili recisi dall’intervento della sciagurata pratica postmoderna.
È questo dunque il compito che ci si pone oggi innanzi, riprendere il discorso là dove era stato interrotto e ricondurlo nel contesto della vita sociale e civile. Fili che come dissi, il nuovo sentire pittorico, riprende da quella tradizione ottocentesca che dell’uso della materia pittorica aveva fatto il proprio strumento di contrapposizione, ribellione e termometro storico della vita sociale e politica. Dove attività artistica e sociale sono del tutto interconnesse e proiettate nuovamente all’emancipazione.
Il discorso sin qui condotto credo abbia risposto ed esaurito il quesito sulla sensatezza dell’esistenza di una corrente pittorica figurativa, ma deve ancora dar conto della sua differenza rispetto ai trascorsi transavanguardisti o neoespressionisti del secolo scorso e come rispetto ad essi si ponga. Queste due esperienze pittoriche del precedente millennio, in linea con quanto sin qui delineato, si sono fondamentalmente occupate della pittura in senso autoreferenziale, attivando una riflessione su quelle esperienze precedenti alla base della mutazione espressivo-artistica già descritta e che è già dichiarata dalle due identità nominali: Transavanguardia (il riesame dei linguaggi attuati dalle avanguardie storiche) e Neoespressionismo (maggiormente concentrata sull’espressione di quella singola avanguardia, con particolare riferimento all’esperienza tedesca, sia nel precedente storico, sia nel riesame moderno che la vede concentrarsi in Germania, aspetto che ne moltiplica l’autoreferenzialità). Dunque entrambe queste correnti, sulla scorta dei precedenti storici, hanno fatto nuova leva sul cosiddetto primitivismo, conducendo così, anche in questo caso, un’indagine alla seconda. Laddove le avanguardie storiche, per attuare un rinnovamento alfabetico del linguaggio, avevano attinto alle testimonianze artistiche primitive delle varie culture – non unicamente occidentali – le esperienze pittoriche degli anni Ottanta hanno necessariamente rivisto tale primitivismo tramite la revisione condotta dalle stesse avanguardie che le hanno precedute e generate. Queste due manifestazioni vengono così a delinearsi come eminentemente citazioniste, ripiegate su riflessioni concernenti problematiche interne l’arte stessa. Costituendosi quale assunto kossuthiano applicato alla pittura, dove essa cita se stessa alla seconda, manifestandosi quale degno atto conclusivo dello slittamento patologico delle pratiche artistiche che Harvey, in La crisi della modernità (David Harvey, La crisi della modernità, [1990], Milano, Il Saggiatore, 1997, pp. 73-74) attraverso l’analisi di Jameson, rileva come atteggiamento tipico della schizzorfrenia (aspetti approfonditi in Il processo di astrazione nell’età contemporanea all’interno del blog https://www.danilosantinelli.it/danilos-blog/2-il-processo-di-astrazione-nelleta-contemporanea/). Il citazionismo attuato dalle pratiche postmoderne si concretizza in una molteplicità di atti di astrazione, i quali ripropongono uno stilema separandolo dal contesto storico-sociale che lo aveva generato e dunque conservandone il solo significante a danno del significato. Rilevando inoltre un altro carattere peculiare della postmodernità nella sua frammentarietà linguistica che spezza la catena del significante, conducendo le forme espressive a manifestarsi tramite isolati e momentanei significanti, che in assenza della naturale consequenzialità temporale, passato presente futuro, rinunciano al loro compito di ricerca ed evoluzione del significato. L’espressione viene così a costituirsi quale fenomeno superficiale (di superfice), incapace di generare un solido discorso sulla società e il proprio tempo. Essa non svolge più un compito di osservazione analitica e di analisi critica del contesto sociale, si determina invece quale mero prodotto tipico della dinamica capitalistica che della frammentarietà necessita e si nutre per sopravvivere.
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