Questo intervento è stato suscitato dalla lettura de Il mio doppio io di Jean Giraud – Moebius, passatomi da Marco Bianchini, valente fumettista italiano sulla breccia ormai da molti anni. Alcuni passaggi del testo mi hanno colpito particolarmente e vorrei dar loro una risposta. In particolare Moebius torna con insistenza su alcuni aspetti linguistici che gli stanno particolarmente a cuore nel capitolo Questioni di stile. Nel testo il grande fumettista francese tende a sovrapporre questioni linguistico-tecniche espressive a considerazioni di valore qualitativo-artistico annesse alla commercialità o meno dei prodotti e nel farlo porta l’esempio del cinema.
«[…] Era il grande momento della Nouvelle Vague, dei primi articoli di Truffaut su ‹Arts et Spetacles›. C’era un dibattito appassionato intorno al cinema americano. Hollywood incarnava l’infanzia del cinema, il cinema eternamente stretto tra l’espressione artistica – talvolta vincente – e il livello commerciale. I vari Hawks, Walsh, Ford o Hitchcock non avevano paura di fare film per il grande pubblico. Non vi perdevano nulla della loro sostanza né del loro talento, anzi. Avevano un modo tutto loro di commuovere lo spettatore, di farlo interrogare sul senso della vita, sui sentimenti, sulle passioni. La pretesa qualità del pubblico non influiva sulla qualità dell’opera. L’arte poteva muoversi liberamente senza scadere nella ‹volgarità› di ciò che i Romani attribuivano al vulgus, il popolino. […] Tuttora, la Francia non è uscita da questo eterno dibattito di scatole cinesi: il romanzo poliziesco non è un romanzo, il fumetto non è disegno, il disegno non è pittura…» (Jean Giraud – Moebius, Il mio doppio io, Roma, DeriveApprodi, 1999)
Ora, è certamente chiaro come Moebius intenda sottolineare una tendenza alla separazione tra “arti basse ed alte” per così dire, ma nel farlo sovrappone argomenti che andrebbero invece trattati nella loro specificità, pena la chiarezza e la comprensione del soggetto dell’argomento. Ora tralascerò come Hollywood non possa incarnare l’infanzia del cinema, essendo stato anticipato da altre modalità espressive di quel linguaggio, che ne hanno semmai determinato e delineato la lingua poi assunta dalla cinematografia hollywoodiana. Ad ogni modo questa sua doppia linea argomentale sovrapposta, tra intensioni di qualità artistica ed espressività linguistica, si fa soprattutto evidente nell’ultima frase. Quando dice che la Francia è ancora preda di un ragionamento condotto per scatole cinesi per cui il romanzo poliziesco non è un romanzo, il fumetto non è disegno, il disegno non è pittura… Il romanzo poliziesco è romanzo, eventualmente romanzo di genere (e qui dovremmo tornare a partale delle trasformazioni accadute in seno all’illuminismo, tra le quali, appunto, la nascita della paraletteratura, da me già trattate più volte in precedenti interventi ai quali rimando), ma pur sempre concepito ed eseguito tramite codice letterario. Il disegno invece non è pittura, perché, semplicemente, non lo è linguisticamente, si avvale cioè di altri strumenti espressivi e questo per più di una ragione, vediamole nel dettaglio.
Anzitutto il fumetto è un codice composto, ossia non si avvale della sola immagine per la sua espressione comunicativa, ma impiega anche il testo, che può essere inteso come dialogo, come descrizione, come voce off, come onomatopea, seppure, quest’ultima, pur essendo parola scritta si avvale di una forma e dimensione del lettering che ne suggerisca tipologia di suono e intensità. Il fumetto quindi mette in relazione più codici espressivi facendoli dialogare e interagire.
In secondo luogo il fumetto è un’arte sequenziale, non a caso i suoi natali sono comuni al cinema ed entrambi nascono nel 1896, tanto che agli albori di entrambi scambi e furti espressivi e narrativi furono all’ordine del giorno. Dunque entrambi possono narrare con dei “prima” e dei “dopo” temporali e fare un uso molto vasto delle tipologie d’inquadratura.
Infine il fumetto, almeno quello più diffuso e tradizionalmente inteso, è una forma espressiva prevalentemente grafica. Dove il disegno, la linea di contorno, delinea soggetti animati e inanimati e dove le ombre possono essere impiegate sia in termini di neri che di tratteggio, questo, come dicevo, se ci atteniamo alle manifestazioni tradizionali di questo linguaggio, dove anche l’uso del colore tende a riempire le forme già tracciate dal disegno.
La pittura, invece, non è sequenziale, si avvale di una sola immagine, inoltre costituita soltanto d’immagine, ma questa immagine non si manifesta come disegno o linea grafica che da forma al mondo rappresentato, si palesa invece in materia pittorica, per la quale anche la forma viene espressa tramite la massa cromatica. Ecco perché il fumetto non è pittura.
Ovviamente questo non determina che l’una sia alta e l’altra bassa, entrambe possono essere alte o basse secondo chi la esegue, ma la confusione argomentale messa in atto da Moebius non aiuta certo il suo discorso, rendendolo invece fuorviante e parte di una tendenza alla disinformazione su questi aspetti.
Non è un caso che poco prima, nel medesimo capitolo, Moebius avesse scritto «Il fumetto è un’arte del disegno. Lo storico dell’arte non vorrà mai ammetterlo: il mondo dell’arte è completamente staccato da quello del fumetto. Eppure nel fumetto si è più disegnatori di quanto non lo si sia mai stati in precedenza nella storia dell’arte. Perché? Perché bisogna disegnare tutto senza modelli e a memoria. E il disegno deve essere ricco, vivo, avere il senso e tutta la complessità del reale.» Anche qui Moebius non va in fondo al problema, nuovamente sovrapponendo piani distinti. Di certo è vero che il fumetto è un’arte del disegno, la pittura, come dicevo, è un’arte della materia. L’aspetto fuorviante del discorso di Moebius risiede nel binomio fumetto-realismo, sia perché non tutto il fumetto è “realista” sia perché ciò che egli chiama “realismo”, nei fatti, non lo è. E anche in questo caso per più di una ragione: la prima riguarda la questione che nessuna rappresentazione è realistica, neanche quella cinematografica, figuriamoci quella fumettistica, ma qui rimando al mio intervento che sull’illusorietà del realismo si focalizzava: https://www.danilosantinelli.it/danilos-blog/illusorieta-del-realismo/; la seconda riguarda la modalità applicativa del cosiddetto disegno “realistico” messo in atto dal fumetto e dettata dalla sua esigenza sequenziale che la costringe a ripetere i medesimi soggetti infinite volte, dovendo dunque ricorrere ad una modularità delle forme anatomiche che le rendano più facilmente riproducibili tramite una perfetta simmetria matematica. Simmetria che nella realtà è assai attenuta, quando non addirittura smentita, anche questo aspetto è maggiormente approfondito nel mio intervento sopra segnalato.
Infine Moebius ritiene che il mondo dell’arte e del fumetto siano assolutamente separati, cosa che sarebbe auspicabile, almeno nelle finalità. È purtroppo vero invece il contrario, ossia come dagli anni Cinquanta in avanti, sostanzialmente dalla Pop Art in avanti, i piani si siano completamente sovrapposti e, ancor più grave, è come le finalità si siano sovrapposte. Un problema generato dalle pratiche espressive e filosofiche postmoderne, che hanno dilagato in ogni anfratto esistenziale e che vogliono costringerci a pensare come tutto simile. Una cultura che ha conosciuto la sua massima estensione con la generazione alla quale Moebius apparteneva e alla quale egli ha cercato di opporsi, seppur cadendo in alcuni dei tranelli di quel pensiero.
Da un lato vi è il fumetto, il cui linguaggio è erede delle modalità narrative della paraletteratura o romanzo di genere nate in seno all’illuminismo, sulla cui scorta si originò anche l’illustrazione moderna nonché lo stesso termine illustrazione, nato in Inghilterra nel 1817 in un clima fattosi ormai romantico. Dall’altro lato vi è la pittura che in quel medesimo periodo rinuncia alla committenza per divenire strumento di ricerca ed emancipazione, assumendo al suo interno soggetti di carattere popolare, sociale e civico e affiancando le mutazioni allora in atto di ordine storico-sociale in senso democratico.
Se il fumetto, a suo modo, è rimasto fedele alla sua missione e vocazione originaria, forse perdendo un poco della sua freschezza e sclerotizzandosi, la pittura ha invece tradito la missione assegnatasi dal Romanticismo in avanti. Pur avendo escluso la committenza, come dicevo, per darsi vocazione sociale, civica e progettuale di futuro, si trova oggi assolutamente succube delle strategie di mercato e, dunque, nuovamente schiava di quella committenza che aveva sfuggito per farsi strumento a favore dell’uomo e della sua evoluzione ed emancipazione.
Un processo che sta tentando di omologare tutte le forme espressive umane proprio tramite un appiattimento dei loro linguaggi e che sottrae, ad ognuna di esse, la ricchezza delle differenti finalità e peculiarità, la cui diversità era sintomo e strumento di una società sana e in crescita, ma il cui slittamento nella cristalizzata omologazione linguistica si fa, invece, strumento e sintomo di una impasse culturale e sociale ormai sotto gli occhi di tutti. Sottrarre queste specificità linguistiche e di fini equivale a sottrarre capacità di reinvenzione sociale e culturale infilandosi in una via senza uscita per mancanza di visione.
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