Vorrei prendere in esame il famosissimo dipinto A bigger splash del 1967 di David Hokney (1937), fingendo di non sapere nulla della vita dell’autore e analizzandone soltanto gli elementi formali e cromatici presenti nel dipinto stesso. Convinto, come sono, che un autore di testi visivi tutto quanto ha da dirci lo esprime tramite gli elementi grammaticali della propria disciplina e che, nel caso di Hokney, ritroviamo nel dipinto; all’interno del quale potrebbero celarsi anche elementi inconsci della sua personalità, così come della nostra di osservatori. Quando osserviamo un’immagine, infatti, la leggiamo dal nostro punto di vista, proiettando in essa la nostra sensibilità, il nostro vissuto, la nostra esperienza, cosicché ogni spettatore ricostruisce il quadro assieme all’autore ogni volta. È questo, a mio avviso, l’aspetto meraviglioso dell’arte: anzitutto ci sforziamo tramite di essa di guardare al mondo con gli occhi dell’autore, ma al contempo doniamo a quell’opera delle sfumature particolari che la renderanno differente da osservatore a osservatore, cosicché a ogni visione l’opera si rigenera, come pure il nostro modo di guardare al mondo; tramite essa instauriamo un dialogando con l’autore che ci assegna un ruolo di compartecipazione e non solo di spettatori.
Vorrei quindi leggere l’opera dalla parte dello spettatore, il quale potrebbe benissimo non aver mai sentito nemmeno nominare il nome di Hokney, né avere spiccati interessi per la pittura, ma trovandosi in visita alla Tate Gallery e imbattendosi nel dipinto ne riceverà necessariamente degli stati emotivi; stati suggeriti dalle forme, dagli andamenti compositivi e dalle campiture cromatiche, sia nella tipologia delle tinte scelte dall’autore, sia nella loro stesura sulla superficie. Lo storico metterà certamente in relazione il dipinto che sta osservando con le altre opere dell’artista, con le sue vicende biografiche e con il contesto storico, sociale e artistico nel quale il dipinto è stato eseguito. Aspetti che lo spettatore non necessariamente tiene in considerazione e che non è obbligato a dover conoscere. Così come assistendo a teatro all’esecuzione della Sinfonia n. 9 in re minore, o ascoltandone un’incisione, non è detto che l’ascoltatore conosca altre opere di Beethoven o sappia nulla della sua vita e addirittura del periodo storico nel quale visse. Ciò non toglie che ascoltando quella struttura musicale, costituita da quei movimenti musicali e da quei particolari suoni, sia pervaso dallo stato emotivo da essa generata. Gli esempi potrebbero allargarsi ad ogni disciplina artistica e, del resto, in tale aspetto risiede la meraviglia dell’espressione artistica stessa. L’arte trasmette, quanto “ha da dire”, tramite relazione emotiva e non razionale, la razionalizzazione del linguaggio è un aspetto che riguarda l’amatore o il tecnico della disciplina, che per proprio interesse personale o professionale andrà ad approfondirne gli aspetti linguistici, come pure quelli di carattere storico.
Veniamo dunque a A bigger splash. Hokney ci mostra una villa con piscina dal sapore californiano, ci vengono in mente il cinema hollywoodiano e le sue stelle, forse per la seggiola da regista a bordo piscina o forse perché proprio in quei film abbiamo già visto innumerevoli volte ville siffatte.
Ad ogni modo villa e piscina sono mostrate frontalmente, assolutamente piatte, come lo sono i colori ad acrilico, che Hokney predilige per le campiture bidimensionali e le tonalità fredde che questa tecnica mette a disposizione. Lo spazio pittorico è pervaso dagli azzurri del cielo e dell’acqua, mentre villa e bordo piscina sono caratterizzati da tinte rosate fortemente schiarite dal bianco che, attenuandone la componente rossa, le raffredda. Così il trampolino di un marrone ricco di giallo, anch’esso sbiadito dal bianco, pare raffreddarsi. L’andamento compositivo predominante è quello orizzontale, che sommato alla freddezza e alla bidimensionalità formale e cromatica assegna all’opera una sospensione temporale e un’assenza rimarcata anche dal vuoto della seggiola, del trampolino e dallo schizzo d’acqua provocato da un tuffatore inesistente. La stasi orizzontale della villa e del bordo piscina è spezzata dall’ingresso diagonale del trampolino. Questo ingresso dal basso a destra irrompe sorprendentemente e infrange l’immobilità dell’immagine, come un sasso tirato sulla piatta superficie dell’acqua.
Qualcosa è arrivato a turbare la stasi di quel microcosmo, metafora di un ceto e di un modello sociale di riferimento nell’immaginario comune. Un sogno che s’infrange, uno status che decade. Proprio lo schizzo d’acqua fa apparire il resto così immobile e vuoto. Abbiamo di fronte due letture: da un lato appunto il sogno infranto, dall’altro quella di un immaginario decaduto, i cui segni di vitalità (lo schizzo d’acqua) sono ormai un pallido ricordo di qualcosa che è già avvenuto (l’assenza del tuffatore), vi è stato ma noi non vi abbiamo assistito e partecipato, ne osserviamo le conseguenze.
L’aspetto formale da illustrazione pubblicitaria o rivista americana anni Quaranta, dove tutto è sintetizzato e geometrizzato, non solo la villa ma anche le palme che somigliano più a bastoncini da cocktail che non a piante, ci persuadono ancor più nel rimando allo sfarzo hollywoodiano dei tempi andati.
Ecco dunque un aspetto sorprendente della pittura, dove un semplice paesaggio può proferire un contesto storico e sociale globale, quanto meno in un immaginario standardizzato dal cinema e ormai condiviso in ogni dove. Un giudizio che induce a riflettere sullo stato di questo immaginario e sulla società che lo produce. E, dove, la risposta si genera individualmente tramite il dialogo con l’autore innescato dalla sua opera.
David Hokney, A bigger splash, 1967, acrylic on canvas 242,5 × 243,9 cm, Tate gallery, London
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