Seminario tenuto il 7 novembre 2020 presso la Fondazione Cassa di Risparmio di Jesi, all’interno del ciclo dal titolo Interventi attorno Chiari
Il processo di astrazione
Nelle arti visive le neo-avanguardie si manifestarono con le cosiddette correnti fredde, cosi definite perché caratterizzate dall’abbandono dei mezzi classici del fare artistico e che in Duchamp, e nel suo ready-made del 1914, vedevano certamente un precursore. In quel 1914 Duchamp si limitò ad esporre all’interno di una galleria un comune scolabottiglie, dunque un oggetto di fabbricazione industriale di uso quotidiano. Tale operazione spostò l’attenzione del fare artistico sull’ideazione anziché sulla realizzazione e, dunque, sul concetto. Duchamp compì un atto, quello di strappare un comune oggetto dalla sua quotidianità spazio-temporale nella quale svolgeva la propria funzione, per collocarlo all’interno della galleria d’arte, ossia di un luogo finalizzato a contenere oggetti senza tempo e all’interno del quale lo scolabottiglie si assolutizza e assurge a simbolo proprio perché sottratto al fluire temporale. L’atto duchampiano, come quello divino, crea nuova esistenza.
Marcel Duchamp, Bottle Rack (ready-made) 1914
[…] l’artista “indica” ciò che diventerà arte, “isola” un oggetto dal mondo della contingenza, lo fa entrare in quello della rappresentazione, cioè dell’assoluto. De Vecchi – Cerchiari: Arte nel Tempo, vol. 3, II tomo, p. 642, 1991
Harold Rosenberg osserva come nell’arte di quegli anni vi sia un sopravvento dell’idea, del processo e dell’atto che squalificano l’oggetto e la sua esecuzione e sapienza tecnica.
Un processo oggi molto in voga e alla base dei format dei reality show, i quali compiono quel medesimo atto prelevando gruppi di persone dalla loro quotidianità, quindi dal flusso spazio-temporale che li rende reali, per isolarli nell’atemporale finzione televisiva dove possono assurgere alla divinità, divenendo dunque divi.
È interessante notare come nel 1907, ossia tre anni prima della nascita della corrente astratta, Worringer (Wilhelm Worringer 1881-1965) avesse pubblicato la sua tesi di laurea Astrazione ed Empatia, nella quale definì l’atto di astrazione come lo strappare un oggetto al fluire dell’esistenza per immortalarlo in un non spazio che lo assolutizzi. Worringer, per darci un esempio di massima espressione astratta, si rifece all’arte egizia e in particolare a uno dei suoi simboli più noti, ossia la piramide, dunque un solido geometrico astratto. Ora, va detto, l’architettura postmoderna si caratterizza come eclettica – così come tutto il linguaggio postmoderno – richiamandosi a sua volta all’eclettismo architettonico del Settecento di stampo neoclassico o neogotico, ma il rimando postmoderno è del tutto esteriore, ossia quelle forme architettoniche vengono prosciugate della loro idealità classica con le quali gli illuministi avevano inteso impiegarle. Mutando così gli edifici più in balocchi che in luoghi abitativi. Anche qui è interessante notare la coincidenza tra i progetti architettonici della fine del Settecento realizzati da Boullée (Étienne-Louis Boullée 1728-1799) e Ledoux (Claude-Nicolas Ledoux 1736-1806), basati sui solidi geometrici – come la piramide, la sfera e il cubo – e la realizzazione della piramide di vetro, progettata da Pei e situata di fronte al Louvre, di epoca Postmoderna. Il cerchio dunque si chiude, quelle che nel Settecento costituirono ipotesi teoriche e astratte si concretizzarono nella postmodernità.
L’atto di astrazione si realizza <<nell’isolare il singolo oggetto dalla sua arbitrarietà e apparente casualità, nell’immortalarlo accostandolo a forme astratte, e nel trovar quindi in tal modo un punto di quiete, un rifugio nella fuga dai fenomeni. Il loro impulso più forte [cioè quello di quei popoli che nell’astrazione realizzavano il loro fare artistico] era, per così dire, quello di strappare l’oggetto dal suo contesto naturale, dall’inarrestabile fluire dell’esistenza, di affrancarlo da tutto quanto in esso era dipendenza dalla vita, cioè da ogni arbitrarietà, di renderlo necessario e inalterabile, di avvicinarlo al suo valore assoluto>>
A sinistra: Simone Cantoni: Palazzo Serbelloni a Milano, 1775-93. A destra: Ricardo Bofill: Il quartiere Antigone a Montpellier, 1979-83
In architettura il postmoderno riprende l’ispirazione eclettica tipica del Settecento – allora caratterizzata principalmente dal Neoclassico e dal Neogotico – aspetti che vengono riproposti in forma sostanzialmente ludica, perché privati delle ascendenze ideali e culturali che avevano assunto in seno al XVIII secolo.
A sinistra: C.N. Ledoux: Progetto di fornace a legna per la città di Chaux, 1792. A destra: E.L. Boullée: Progetto per il cenotafio di Turenne, fine XVIII secolo
Ming Pei: Piramide nella Cour Napoléon del Louvre a Parigi, 1989
Per meglio comprendere questi mutamenti artistici vorrei far ricorso alle affermazioni di alcuni pittori. Sul finire dell’Ottocento Denis (Maurice Denis 1870-1943), pittore postimpressionista ed esponente dei Nabis, affermò che “il quadro non è che una superficie dipinta”, decretandone la sua bidimensionalità e negandone la funzione di finestra sul mondo. Denis segnò così il passo rispetto al precedente impressionismo ancora impegnato in questioni di ordine percettivo della luce e che, secondo alcuni teorici, costituisce l’ultimo atto di un processo artistico incentrato proprio sulle questioni percettive avviatosi con la prospettiva rinascimentale. Nel 1910, al sorgere dell’arte astratta, Malevich (Kazimir Malevič 1879-1935) che ne fu uno dei fondatori, dichiarò che “l’arte non deve avere altro referente che se stessa”, smarcando così l’arte definitivamente dalla realtà. Negli anni Cinquanta Reinhardt (Ad Reinhardt 1913-1967), pittore informale, disse “arte come arte”, rimarcandone il solo interesse per se stessa. Per poi giungere negli anni sessanta a Kosuth (Joseph Kosuth 1945), uno dei massimi esponenti dell’arte concettuale, che disse “arte come idea, come idea”, quell’idea ribadita due volte muta l’arte nell’idea di se stessa e dunque in un’astrazione. Come si vede quell’atemporalità tipica del postmodernismo giunge quindi da lontano. Un’atemporalità che alcuni studiosi hanno indicato come sintomo patologico, del tutto simile ad alcune forme di schizofrenia, dove il paziente non è più in grado di dare continuità agli eventi del proprio vissuto.
A sinistra: Maurice Denis: I tetti rossi, 1892. Al centro: Kazimir Malevic: Giallo,arancione everde, 1914. A destra: Ad Reinhardt: Composizione, 1960-66
Joseph Kosuth: One and three chairs, 1965
Gli autori delle correnti fredde appartengono alla generazione dei giovani delle rivolte studentesche, del movimento femminista e della cultura hippie degli anni Sessanta. La loro rinuncia alla creazione di oggetti artistici andava dunque in una direzione di contrapposizione al mercato, l’idea come soggetto artistico o l’uso del proprio corpo, nella Body Art o negli atti performativi, sembrarono loro soggetti invendibili e, come tali, perfetti a perseguire quella finalità, ma come la storia ha dimostrato quegli ideali furono travolti dalle logiche del mercato. Senza poi tener conto di come, già alla metà degli anni Settanta, lo storico dell’arte Corrado Maltese (1921-2001) dichiarasse la fallibilità di quel progetto in un testo dal titolo Guida allo studio della storia dell’arte.
A sinistra: Joseph Beuys, The Pack 1969. Al centro: Piero Manzoni, Merda d’artista, 1961. A destra: Piero Manzoni, Sculture viventi, 1961
Le correnti fredde (scomparsa dell’oggetto artistico)
Arte concettuale
Performance
Installazione
Body art
Land art
Arte povera
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