Piero della Francesca, Natività, 1460-1475 (particolare)
Nel 1925 Franz Roh (1890-1965) teorizza il Realismo Magico (Nach-Expressionismus – magischer Realismus: Probleme der neuesten europäisches Malerei, Leipzig, Klinkhardt & Biermann), affermando che la pittura ha il compito di contrapporsi al vago e demoniaco fluire esistenziale. La rappresentazione pittorica doveva dunque cristallizzare i volumi, renderli solidi, immutabili e atemporali. Le opere appartenenti al Realismo Magico, e alle esperienze pittoriche precedenti che lo generarono (Metafisica in particolare), debbono quel senso di inquietudine alla sospensione temporale che da esse promana, ottenuta tramite la solidificazione di una materia pittorica con riferimenti stilistici Quattro-Cinquecenteschi, resi inanimati anche per accostamento a forme geometriche astratte. Le figure appaiono inespressive e prive di vita, ma possono perfino mutarsi in manichini come nell’opera di De Chirico (Giorgio De Chirico 1888-1978) e dei metafisici.
Questa sospensione del flusso vitale non può essere ricondotta alla sola produzione del Realismo Magico e dei suoi precedenti storici. Si tratta di una concezione di più ampio respiro, che ha permeato molta parte della produzione novecentesca. Basti pensare al ready-made duchampiano (Marcel Duchamp 1887-1968, esponente del Dadaismo corrente nata a Zurigo nel 1916, nel 1914 esegue il suo primo ready-made uno scolabottiglie, si tratta di una pratica di sua invenzione per la quale preleva un oggetto di uso quotidiano per porlo, dopo averlo firmato, all’interno della galleria d’arte, pratica che getta le basi e origina l’arte concettuale che si svilupperà negli anni Sessanta del secolo scorso), ottenuto tramite il prelievo di un oggetto di uso quotidiano dal suo contesto spazio-temporale, così da condurlo nell’isolamento del non spazio-tempo della galleria, all’interno della quale gli oggetti assurgono ad arte senza tempo e dunque a simboli. Del resto nel 1907, anticipando di soli sette anni il primo ready-made, Willelm Worringer (1881-1965) aveva pubblicato Astrazione ed Empatia, esaltandovi l’astrazione a danno dell’empatia e descrivendola come l’atto di strappare un soggetto (animato o inanimato) dal suo contesto spazio-temporale per sospenderlo in un non spazio che lo assolutizzasse. Aveva così anticipato di tre anni anche la nascita della pittura astratta e di buona parte delle pratiche artistiche che si sarebbero susseguite.
D’altra parte le teorie worringeriane attecchiscono in un ambiente che aveva già dato segno di tali tendenze. Potremmo anzi dire che queste aspirazioni all’astrazione erano già presenti allo scaturire dell’Epoca Contemporanea (che si fa coincidere con il 1789, anno di avvio della rivoluzione francese), quando in pieno eclettismo revivalistico architettonico Boullée (Étienne-Louis Boullée 1728-1799) e Leoudoux (Claude-Nicolas Ledoux 1736-1806) iniziano ad immaginare costruzioni basate sui solidi geometrici primari: cubo, sfera e piramide. In questo caso anticipando essi Worringer, che nel suo trattato indicherà l’arte egizia, e la piramide in particolare, quale espressione ideale delle forme artistiche che aspirino all’astrazione. Worringer aveva così intuito un carattere profondo e significativo della contemporaneità. La rivoluzione industriale, che ne è uno dei caratteri fondanti e determinanti, trasforma la vita quotidiana e lavorativa degli uomini, essi vengono strappati dal contesto rurale e agricolo basato sui cicli naturali, quelli stagionali della raccolta e quelli dell’alternanza giorno-notte, e isolati nei centri urbani che si espandono mutando radicalmente il paesaggio. All’interno di queste isole industriali la temporalità è sospesa. La produzione industriale impone una continuità che non conosce interruzioni notturne e anche il consumo, che contrassegna le pratiche del tempo libero nelle grandi città, non conosce interruzioni di sorta.
Anche il carattere antagonista del Romanzo Gotico (genere letterario avviatosi nel 1764 con Il castello di Otranto di Horace Walpole 1717-1797 che darà l’avvio alla paraletteratura), in risposta all’industrializzazione e alla meccanizzazione della vita e del lavoro, presenta i caratteri dell’astrazione. Possiamo ritenerlo un antesignano di quel senso di inquietudine e sospensione che più tardi permeerà parte del Simbolismo prima, della Metafisica e del Realismo Magico poi e delle successive propaggini, sino a giungere ai nostri giorni al Pop Surrealism (la corrente Lowbrow o Pop Surrealism nasce a Los Angeles al termine degli anni Sttanta del secolo scorso). Il suo ricorso a indefinite epoche storiche, più mentali che reali, la presenza di personaggi con caratteri soprannaturali o non umani, anch’essi più lasciati intuire che asseriti, assegnano a tanta parte della letteratura gotica quei caratteri di inquietudine e sospensione temporale tipici dell’astrazione. Gli stranianti solidi geometrici e i manichini metafisici provengono dalle radici della contemporaneità, è proprio la presenza di queste forme inanimate a determinare il carattere distintivo di quelle opere letterarie e pittoriche.
Nel caso italiano tali aspetti sono tanto più pregnanti. Se riflettiamo sui modelli Quattro-Cinquecenteschi alla base del Realismo Magico e della Metafisica, il riferimento a Piero Della Francesca (1416-1492) è irrinunciabile. In Piero quei caratteri, più diffusi e caratteristici della pittura sviluppatasi in Italia centrale e dominante allora a Roma, raggiungono un’evidenza emblematica. I corpi rigidi e statici e i volti inespressivi e modulari sono già i futuri manichini metafisici. In Piero tutto è volume matematico, concezione e forma sono astratte.
Certo sul finire del XVIII secolo le teorizzazioni formali di Boullée e Leoudoux rimasero perlopiù embrioni progettuali, ma la natura circolare che la contemporaneità avrebbe assunto ha fatto si che con il ritorno in auge dell’eclettismo, nelle recenti esperienze architettoniche postmoderne (seppure con un’inclinazione più al balocco che alla funzionalità dell’edificio quale spazio del vissuto quotidiano), quelle aspirazioni potessero assumere forma concreta. In tal senso la simbolica, sotto molti aspetti, piramide (1989) collocata da Pei (Ieoh Ming Pei 1917) di fronte al Louvre può a ragione ritenersi uno dei massimi esempi della concretizzazione di quelle aspirazioni architettoniche di fine Settecento. La postmodernità è l’emblematica forma conclusiva dell’Epoca Contemporanea, avviatasi citazionista e conclusasi citando il citazionismo.
Questa citazione alla seconda richiama alla memoria l’affermazione di Joseph Kosuth (1945) «Arte come arte, come arte», dove l’arte diviene l’idea di sé stessa alla seconda. Questo sconfinamento in idee e atteggiamenti alla seconda è esso stesso testimonianza di un alto grado di astrazione.
Da questa astrazione dell’artista ci aveva del resto già messo in guardia Arnheim (1904-2007), quando in Arte e Percezione Visiva (1954) denunciava il rischio che l’artista, a seguito della sua decaduta funzione sociale assegnatagli precedentemente dalla committenza, potesse divenire un outsider, astraendosi egli stesso dalla società non adempiendo più alcun ruolo in essa.
Nei primi Anni Novanta del secolo scorso De Vecchi e Cerchiari, in Arte nel Tempo, avevano già messo in luce come alcune delle affermazioni rilasciate da protagonisti dell’arte tra Otto e Novecento, potessero costituire un valido strumento di lettura delle mutazioni d’intendere l’arte e più in generale del rapporto tra artisti e società.
Partendo dal post impressionismo con Maurice Denis (1870-1943) che sosteneva che in fondo «un quadro non è che una superficie dipinta», decretando la morte della pittura quale mimesi del mondo e dell’illusiva spazialità della pittura. Per proseguire nel 1910 con Malevich (Kazimir Severinovič Malevič 1878-1935), il quale afferma che «l’arte non deve avere altro referente che sé stessa». Giungendo poi negli anni Cinquanta, quando Reinhardt (Adolph Dietrich Friedrich Reinhardt 1913-1967) proferirà il suo «arte come arte» e che negli anni Sessanta sarà appunto rafforzato da «arte come idea, come idea» di Kossuth. Questo breve percorso, fatto di frasi, ci sottopone un allontanamento dal mondo e dalle sue presenze per giungere all’idea astratta del pensiero. Percorso che ci conduce dalla pittura postimpressionista fattasi ormai definitivamente bidimensionale, alla nascita dell’astrazione (la pittura astratta si origina a partire dal 1910 con con Wasilij Kndinskij 1866-1944) con l’abbandono della figurazione, all’informale (corrente artistica sviluppatasi al termine della seconda guerra mondiale) dove in buona parte viene a decadere anche il concetto del dipinto quale spazio compositivo delle forme e dove la pittura inizia a divenire azione, quell’azione che poi la condurrà negli anni Sessanta all’abbandono stesso della pittura per abbracciare la performance, l’installazione e il concettuale (le cosiddette correnti fredde sviluppatesi dagli anni Sessanta in avanti del secolo scorso). Lentamente la materia viene a decadere, l’arte non è più manufatto ma concetto astratto. Se Duchamp aveva prelevato un oggetto dal suo ruolo e contesto quotidiano isolandolo e sospendendolo nel non-tempo della galleria, Kossuth astrae l’artista dalla materia pittorica, portando alle estreme conseguenze i timori di Arnheim.
A scanso di equivoci va qui sottolineato che negli anni Sessanta, all’avvio dell’arte concettuale e di quelle che poi sarebbero state definite correnti fredde, il contesto storicosociale della contestazione giovanile di ogni forma di pregresso potere giustificò e alimentò lo sviluppo di queste correnti. La protesta voleva allora contrapporsi al potere vigente in ogni sua forma, contestandone il costume sociale e sessuale, politico ed economico. L’arte quale produttrice di oggetti di lusso, dediti alla proprietà privata e alla loro compravendita, rappresentavano uno degli status e delle forme di potere da combattere. Ma un’arte che non producesse oggetti non avrebbe alimentato il mercato, inoltre portare l’arte all’idea e non alla sua realizzazione, avrebbe reso l’arte più democratica, più alla portata di chiunque. L’ampio respiro del movimento di quegli anni reclamava un’eguaglianza totalitaria sotto ogni aspetto.
Corrado Maltese già nel 1975 denunciava l’aspetto fallimentare di tali pratiche:
«Il ricorso ad attività produttrici praticamente senza prodotto è talvolta spiegato da critici e da artisti adducendo l’intenzione di rifiutare la logica della ‹mercificazione› dei prodotti in quanto tali. È appena necessario osservare che questa motivazione è pretestuosa e puramente velleitaria: un mimo o un clown non vende nemmeno lui ‹prodotti› separabili dall’attività produttrice, ma nondimeno vende qualcosa, perché vende ore e ore di se stesso e della propria esistenza. Questo giudizio non implica, naturalmente, che la contraddizione non sia sintomatica: il decadere della cultura degli oggetti e la sua accelerata sostituzione con la cultura delle forme labili ha infatti cause e aspetti ben profondi […]» (Corrado Maltese, Guida allo studio della storia dell’arte, [1975], Milano, Mursia Editore, 1988)
Il resto come si dice è storia e quel movimento fu vinto dal mercato e dal potere, aspetti che oggi sembrano confondersi l’uno nell’altro sino a coincidere. Del resto le conseguenze della spinta astratta hanno determinato negli anni Novanta la nascita della BritArt (Young British Artists o BritArt corrente artistica la cui prima esposizione risale al 1988), un fenomeno che apparentemente potrebbe discendere dalle correnti fredde di cui sopra, ma che in realtà non possiede la rottura propulsiva apportata proprio dall’ampio respiro foriero di nuovi valori negli anni Sessanta. Le operazioni fintamente scandalistiche, adatte ai salotti economici che poco o nulla sanno d’arte, sono legate essenzialmente al marketing, alle strategie di fascinazione del target di riferimento. Le operazioni artistiche sono finalizzate a far levitare le quotazioni sul mercato. Il mercato non è più il veicolo di vendita dell’opera, ma diviene esso stesso l’opera.
Che l’artista avesse declinato i suoi doveri di ricerca lo si era già intuito il decennio precedente, rendendosi mero esecutore delle strategie di alcuni vip della critica.
Lungo il corso della storia dell’arte gli scarti tra il mercato, il gusto delle varie epoche per così dire, e la ricerca artistica sono costanti e naturali. Questa naturalezza è stata e continua a esser dettata dall’opera quale manufatto di lusso, la cui committenza non poteva che venire dalle classi agiate che la intendevano strumento di propaganda del proprio potere. Dall’altra parte vi era l’artista con le sue esigenze stilistiche ed espressive, interpreti di una sua propria visione del mondo. Eppure questo non impediva ad autori dalla solida identità di condurre la propria ricerca, in molti casi gabbando la stessa committenza. Le continue riletture storicoartistiche sono testimonianza di come i mutevoli gusti dei tempi determinassero fortune o sfortune d’intere carriere artistiche e di come noi oggi riteniamo essenziali, per la nostra storia e il nostro patrimonio culturale, autori che non necessariamente avevano favore, successo e denaro. Le biografie sono li a testimoniarci come ciò che oggi ci appare tanto sfolgorante e leggendario, spesso, fosse tutt’altro.
Poi con il Romanticismo la committenza decadde, permettendo all’arte di dedicarsi pienamente alla ricerca (un processo avviatosi a seguito delle rivoluzioni culturali in senso democratico dall’Illuminismo). La debolezza manifestata dall’arte e dagli artisti nell’ultimo trentennio del secolo scorso sembrerebbe quindi incomprensibile e addirittura frutto di mera avidità se non ricondotto in questo slittamento verso un’astrazione che presenta i caratteri della dissociazione patologica.
Abbiamo dunque rilevato una matrice astratta che nel corso del Novecento permea le espressioni figurative, non figurative e fredde dell’arte e che pure convive con la spinta democratica originatasi dall’Illuminismo e ripresa dal diffondersi del pensiero socialista nell’Ottocento e giunta sino al movimento giovanile degli anni Sessanta del Novecento. Queste due anime sembrerebbero inconciliabili, eppure le abbiamo scoperte gemelle: la spinta al cambiamento, alla sovversione, all’evoluzione sociale e tecnica contrapposte ai timori delle conseguenze di quei medesimi mutamenti. La razionalità quale strumento egualitario di democratizzazione sociale, perseguito tramite la diffusione del sapere umanistico e scientifico, e il timore degli eccessi di razionalizzazione. Le due anime che hanno del resto sempre coabitato nell’uomo e che tornano a manifestarsi dilaniandolo, essendo incapace di giungere a una sintesi.
Il tormentato rovello tra spinte razionali e irrazionali, tra i vantaggi tecnologici e i timori degli eccessi della vita tecnologizzata, è uno degli aspetti caratteriali della contemporaneità, laddove all’insorgere della meccanizzazione del lavoro, dovuta alla rivoluzione industriale e che porta alla conseguente nascita del capitalismo, vi si oppone artisticamente il Romanzo Gotico con le sue pulsioni misteriche, irrazionali e soprannaturali che costituirono una parte sostanziale dell’anima del Romanticismo. All’interno della postmodernità tale aspetto sembra essersi ripetuto similarmente, in particolare se teniamo conto di come, a partire dalla fine degli anni Cinquanta del XX secolo, la spinta digitale abbia innescato medesimi timori, particolarmente espressi nella cinematografia e nella letteratura di fantascienza. Anche qui, come già per il gotico, le paure del sopravvento della macchina sull’uomo, nel caso particolare dei robots, e del controllo informativo che potrebbe condurre a nuove forme di totalitarismo. Quest’ultimo timore è tanto più calzante trovandoci nell’Era dell’Informazione, dove con essa s’intende l’informazione quale strumento di potere economico e di mercato. In sostanza il Postmoderno ha replicato alcune dinamiche tipiche dell’avvio della contemporaneità, aspetto che anche in questo caso sembra concluderla così come era iniziata. Lo strumento del sapere diffuso, che agli albori della contemporaneità venne indicato e impiegato quale strumento di diffusione democratica – ma anche di diffusione capitalistica tramite l’ampliamento delle fasce di mercato e consumo – oggi, nell’Era dell’Informazione, è esso stesso merce, costituisce anzi il fondamento economico del nuovo capitalismo flessibile.
Oggi, in presenza dei nuovi media, dello sconvolgimento da essi determinato nelle comunicazione e nelle relazioni sociali, in presenza della cosiddetta generazione dei nativi digitali, lo stesso fare artistico sembrerebbe perdere di senso, o quanto meno perdersi nello tsunami inarrestabile d’immagini e informazioni digitali che tutto travolgono senza lasciare tracce sul loro percorso. Le immagini costituiscono anzi il principale linguaggio di diffusione economica e di colonizzazione dell’immaginario sociale nell’Era dell’Informazione, questo in forza della sua rapidità di penetrazione inconscia. Le conoscenze riguardanti le immagini e i loro aspetti linguistici dovrebbero pertanto essere ampiamente diffuse e appartenere ai comuni programmi scolastici. Le nuove generazioni fruiscono e comunicano tramite media eminentemente visivi. Questi media, oggi interattivi, si rivelano estremamente più potenti di quanto lo fossero i precedenti a fruizione passiva. Essi sono in grado di permeare virtualmente la vita dei fruitori, conducendoli ad una doppia esistenza, dove a quella fisico-geografica si accompagna quella immateriale e digitale. E all’interno della quale si acutizza quella continuità tra il tempo del soggetto-lavoratore, dunque soggetto-produttore, a quella di soggetto-consumatore, il cui tempo libero e i cui intrattenimenti lo riconducono in una dinamica economica ininterrotta. Proprio tramite l’interazione il fruitore si costituisce prodotto dei nuovi media, ai quali, attraverso il loro impiego, fornisce gratuitamente le proprie informazioni personali. Informazioni che consentono alla comunicazione di essere mirata ed efficace nella proposta dei contenuti e nel suscitare bisogni.
«La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti della produzione, il che vuol dire i modi e i rapporti della produzione, ossia, in ultima analisi, tutto l’insieme dei rapporti sociali. L’immutata conservazione dell’antico modo di produzione era la prima condizione di esistenza delle vecchie classi industriali. Questo continuo sovvertimento della produzione, questo ininterrotto scuotimento delle condizioni sociali, questo moto perpetuo, con l’insicurezza costante che l’accompagna, contraddistingue l’epoca borghese da tutte le altre che la precedettero. Tutti gli antichi e arrugginiti rapporti della vita, con tutto il loro seguito di opinioni e credenze ricevute e venerate per tradizione, si dissolvono; e i nuovi rapporti che subentrano invecchiano ancor prima di aver avuto il tempo di fissarsi e di consolidarsi. Tutto ciò che aveva carattere stabile e che rispondeva alla gerarchia dei ceti svanisce, tutto ciò che era sacro viene profanato, e gli uomini si trovano alla fine a dover considerare le loro condizioni di esistenza con occhi liberi da ogni illusione.
Spinta dal bisogno di sempre nuovi sbocchi per le proprie merci, la borghesia si spinge su tutto il globo terrestre per invaderlo. Dappertutto essa deve stabilirsi, dappertutto essa ha bisogno di estendere le linee del commercio.» (Karl Marx e Friederich Engels, Manifesto comunista, 1848)
Cosa avrebbero detto Marx ed Engels in presenza delle nuove tecnologie? Ne avrebbero certamente rilevato l’aspetto di colonizzazione dell’immaginario, che non solo tende a permearlo delle istanze ed esigenze propagandistiche borghesi, ma estende le sue pratiche economiche ai soggetti-fruitori rendendoli prodotto e merce di scambio.
«A causa del rapido perfezionamento di tutti gli strumenti della produzione e delle comunicazioni divenute infinitamente più facili, la borghesia trascina per forza nella corrente della civiltà anche le nazioni più barbare. I bassi prezzi delle sue merci sono l’artiglieria pesante con cui essa abbatte tutte le muraglie cinesi e con cui ha fatto capitolare i barbari più induriti nell’odio contro lo straniero; essa costringe tutte le nazioni ad adottare le forme della produzione borghese se non vogliono morire, e le costringe a ricevere ciò che chiama civilizzazione, ossia a farsi borghesi. A dirla in una sola espressione, crea un mondo a propria immagine e somiglianza.
[…] Ogni crisi distrugge regolarmente non solo una gran fetta di prodotti, ma molte di quelle forze produttive che erano state create. Un’epidemia, che in ogni altra epoca storica sarebbe parsa un controsenso, un’epidemia nuova si rivela nelle crisi, ed è quella della sovrapproduzione. La società ricade inaspettatamente in uno stato transitorio di vera barbarie. Si direbbe che la carestia, o una guerra generale di sterminio, l’abbia privata dei mezzi d’esistenza: il commercio e l’industria paiono annientati, e perché? Perché la società ha troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive di cui essa dispone non giovano più a favorire lo sviluppo dei rapporti di proprietà borghese; anzi, sono diventate troppo potenti per tali rapporti, che divengono per ciò degli impedimenti; e tutte le volte che queste forze superano l’impedimento creano disordine nell’intera società, minacciando l’esistenza della stessa proprietà borghese. Le condizioni del mondo borghese sono diventate ormai troppo anguste per contenere la ricchezza che esse stesse producono. Con quali mezzi riesce la borghesia a vincere le crisi? Da un lato, distruggendo, a seconda delle circostanze, una grande quantità di forze produttive; dall’altro, conquistando nuovi mercati e sfruttando più intensamente quelli già esistenti. Con quali mezzi dunque? Preparando nuove, più estese e più formidabili crisi, e riducendo i mezzi per ovviare a quelle future.» (Karl Marx e Friederich Engels, op.cit.)
Che dire dunque della recente crisi economica immancabilmente commentata dai e sui media come mera espressione di un singolo evento congiunturale economico, anziché come carattere insito nella dinamica economica indispensabile alla sopravvivenza del capitalismo?
«Quelle stesse armi con cui la borghesia riuscì ad abbattere il feudalismo, si rivolgono ora contro di essa.
Ma la borghesia non ha soltanto preparato le armi, che le recheranno la morte; essa ha anche prodotto gli uomini, che useranno quelle stesse armi, cioè gli operai moderni, i proletari.
Nella stessa misura in cui si sviluppa la borghesia, ossia il capitale, si sviluppa anche il proletariato, ossia la classe degli operai moderni, i quali vivono fintanto che trovano lavoro, e trovano lavoro fintanto che il loro lavoro accresce il capitale. Questi operai, che sono costretti a vendersi giorno per giorno, non sono se non una merce come tutte le altre, una merce soggetta a tutte le vicende della concorrenza, e a tutte le fluttuazioni del mercato.» (Karl Marx e Friederich Engels, op.cit.)
Marx ed Engels credevano che la creazione della classe operaia, come effetto collaterale della produzione capitalistica, fattasi sempre più numerosa e forte potesse determinare la fine dell’egemonia borghese e del capitalismo. Speranza vanificata dal totalitarismo della comunicazione virtuale dove ogni uomo diviene prodotto. E gli uomini si trovano (nuovamente) alla fine a dover considerare le loro condizioni di esistenza con occhi liberi da ogni illusione.
Questi due aspetti, potere capitalistico e produzione d’immagini, sono oggi profondamente interconnessi e dovrebbero costringere gli autori d’immagini e gli artisti in particolare, che alla ricerca dovrebbero essere dediti, a un maggiore rigore etico rispetto la loro responsabilità espressiva.
«Le forme liberatorie si presentano indubbiamente come modelli (macro e micro-modelli) di libertà e perciò forme-pilota del gusto, ma sono forme-pilota perché sono liberatorie prima di tutto per il gruppo o per i gruppi sociali egemoni, per le cui condizioni esistenziali sono appropriate e per le quali sono state prodotte. Questo non significa che le forme-pilota non possono contenere un valore liberatorio universale, valido cioè anche per i gruppi e le classi sociali subalterni, ma ciò è possibile solo nella misura in cui la loro condizione subalterna venga a cessare. In mancanza di ciò, bellezza ed esteticità troveranno sempre, nei gruppi e nelle classi sociali subordinate, vie diverse e subalterne per realizzarsi e continueranno, sia pure in forme limitate, a realizzarsi, almeno finché la dimensione ludica degli uomini, cioè la loro esigenza di liberarsi, almeno per qualche momento, dal mondo dei fini o della strumentalità (che alla sua base ha poi l’esigenza di allargare costantemente il proprio orizzonte esistenziale) non sarà stata per ipotesi definitivamente soppressa.» (Corrado Maltese, Guida allo studio della storia dell’arte, [1975], Milano, Mursia Editore, 1988)
Questa la ragione dello scollamento tra l’arte contemporanea e il corpo sociale, avendo essa sempre più assunto delle forme astratte di produzione si è inconsapevolmente astratta dalla stessa socialità e questo, paradossalmente, volendo perseguire delle forme apparentemente più sociali e pubbliche. Mentre l’arte diveniva un corpo a sé stante, scisso dalle frequentazioni quotidiane degli individui, altre forme d’espressione, come il cinema e la musica nel Novecento, si fecero interpreti delle istanze sociali con molta più forza di quanto fossero in grado le arti visive, proprio perché impiegarono dei procedimenti e linguaggi che, smentendo le ottimistiche premesse dei loro fautori, si rivelarono sempre più incomprensibili e inadatte alla rappresentazione dei reali bisogni degli individui, facendosi invece interpreti prevalentemente delle esigenze dell’establishment e congeniali alle nuove forme economiche, proprio in forza della loro immaterialità e rapidità di decadenza. In tutto incarnazione della nuova immaterialità e deperibilità dell’industria informativa e dei nuovi modelli economico-sociali.
Del resto questo nostro vissuto virtuale incarna la summa della nostra astratta discendenza e costituisce la soppressione di quella dimensione ludica, trasformandoci, tramite l’impiego delle comunicazioni virtuali, in merce e prodotto. Eppure proprio nel momento di maggior impalpabilità esistenziale, si è fatta sempre più forte l’eco storica e la nuova linfa produttiva di quel sentire artistico che all’astrazione si è sempre contrapposto e che qui sentiamo di dover affrancare dal contemporaneo stordimento informativo. Il nuovo sentire registra e denuncia con forza questa impalpabilità umana e la sua identità negata, registrando assenze anziché presenze. Il frastuono prodotto dall’Era dell’Informazione, con la sua mole di dati continuamente vomitati e inghiottiti dai media, è tale che equivale al silenzio, alla totale assenza d’informazione, poiché in un tale fragore è impossibile distinguere la singola voce, discernere la singola frase.
Questo nuovo millennio ha manifestato la perentoria volontà dei singoli di essere presenti, apparire tramite i format dei reality o talent show televisivi e i sistemi di comunicazione interattiva dei social networks. Pratiche che non fanno altro che astrarre quegli stessi individui dalla concretezza spazio-temporale delle loro quotidianità. Manifestando, in verità e in concreto, la frustrazione dell’anonimato e la disperata solitudine dei singoli, poiché questo è il vero spirito che permea il nostro tempo e la società contemporanea voluta dalle nuove formule del capitalismo, alle quali non solo ci siamo volontariamente assoggettati, ma che, come dicevo, alimentiamo essendone il reale e concreto prodotto. Cullandoci poi nell’infantile illusione di sceglierlo o gestirlo. Questo nostro vivere virtuale, quest’esistenza astratta, questa drammatica assenza identitaria individuale e sociale, questa disintegrazione degli spiriti tramite l’annichilimento dell’intelligenza e del sentimento degli individui è quanto questa area pittorica si è incaricata di far emergere e rendere esplicita. Questa sua natura ed esigenza espressiva non possono ovviamente che contrapporla ai pensieri generatori dell’annichilimento umano e, conseguentemente, a quelle forme espressive che se ne fanno partecipi alimentandolo. Mi riferisco ovviamente qui a tutte quelle correnti che dell’atteggiamento di astrazione fanno la loro pratica espressiva. Queste pratiche ricalcano i comportamenti economici capitalistici che di volta in volta hanno l’esigenza di strappare un nuovo soggetto, espressivo o merceologico, da far fruttare in poco tempo prosciugandolo, per poi subito dopo abbandonarlo per sfruttarne immediatamente un altro. In una frenetica attività vampiresca. Evitando così che nessuno di tali soggetti possa assumere reale importanza o sufficiente potere da essere concretamente incisivo o costituire una minaccia. Mercati che si nutrono della morte di altri mercati e classi che si nutrono dell’annientamento di altre classi. Inutile dire come tali soggetti siano sostanzialmente di superficie, scevri da qualsiasi forma o posizione ideologica, dovendo adempiere all’esclusivo compito merceologico.
Non è del resto un caso che alcuni dei padri di questo odierno e differente sentire pittorico si collochino scomodamente, quasi come oggetti estranei, all’interno della produzione artistica del secolo XX o che vi si collochino in maniera minoritaria.
Va anzitutto detto che questa modalità espressiva pittorica si riconosce ben poco, o anche qui minoritariamente, nella produzione novecentesca. Ci riferiamo in particolare ai suoi caratteri tecnico-espressivi, che sembrano invece sentire estremamente vicini e ad essa congeniali molti degli esempi della fine del XIX secolo, con particolare riferimento all’impiego della materia pittorica, ma, come dicevo, anche ad una più sentita partecipazione sociale.
Seppure legata a esperienze tecnico pittoriche precedenti, come del resto avverrebbe per qualsiasi altra area di produzione artistica, può dirsi scevra da ogni pratica citazionista. Sembra leggere il XX secolo come l’interruzione di un discorso arrivato a fine Ottocento che essa riprende. Gli esempi presenti nel Novecento, e a essa accostabili, per tale ragione vi si trovano scomodi o sotterranei e certamente sporadici rispetto alle tendenze più caratteristiche di quel secolo.
Tale questione è legata ed espressa nell’uso di una materia pittorica frammentata e liquefatta, che tende sostanzialmente a negare il volume e a spingersi in direzione deformante degli elementi della figurazione. Quello stesso processo pittorico che nel corso dell’Ottocento aveva portato a far deflagrare l’impianto pittorico accademico e tradizionale, che dalla classicità rinascimentale si era poi traghettato nel Neoclassicismo con la sua levigatezza, per approdare ad una esecuzione pittorica sempre più rapida che non celasse la materia ed il gesto pittorico, facendo apparire il dipinto sempre più vicino a quello che precedentemente si sarebbe definito lo studio dell’esecutivo e rivelandolo per ciò che esso è in realtà: materia e gesto su di una superficie. Pratica che in Francia sarà inizialmente resa evidentemente in modo eclatante nella pittura impressionista, ma che pure era già ben visibile nelle opere di artisti come Constable (John Constable 1776-1837) e Turner (William Turner 1775-1851), per fare due esempi eccellenti, pur trattandosi di un fenomeno molto più diffuso che giunge dalla pittura di paesaggio romantica. Di questo approccio all’impiego rivelatore della materia pittorica troviamo esempi diffusi nella genialità di alcuni autori, come nel caso dell’ultima produzione di Goya (Francisco José de Goya y Lucientes 1746-1828) o ad inizio Settecento in alcune opere del Crespi (Giuseppe Maria Crespi 1665-1747) o ancora prima negli splendidi esempi, nel pieno del corpo seicentesco, nell’ultima produzione di Rembrandt (Rembrandt Harmenszoon van Rijn 1606-1669) e in certa misura prefigurati dall’ultima produzione di Tiziano (Tiziano Vecellio 1488-1576). Tale sensibilità non poteva che muovere le mosse dalla tradizione cromatica di area veneta, che per sua natura tende maggiormente ad ammorbidire i volumi, come contemporaneamente avviene in area lombarda grazie all’ascendenza di matrice leonardesca, sulla scorta dell’eredità pittorica della sua permanenza milanese, tramite l’impiego della luce e dell’atmosfericità. Due sensibilità che si sganciano da quelle dell’Italia centrale che sui volumi del disegno è maggiormente concentrata costituendo il filone più forte, conosciuto e diffuso della tradizione italiana. Un filone che ritroveremo appunto nel Realismo magico, ma il cui impianto concettuale è già presente nel primo dei pittori che si considera moderni e senza la cui esperienza e ricerca non avrebbe visto la luce il successivo Cubismo. Mi sto ovviamente riferendo a Cezanne (Paul Cézanne 1839-1906), il primo dei postimpressionisti, che si discosta da quello sfrangiato uso pittorico impressionista per indagare i volumi e le forme prime che dietro le cose si celano. Un aspetto che lo avvicina all’impianto concettuale rinascimentale dell’Italia centrale non solo nella ricerca estetica della sintesi volumetrica, di cui Piero Della Francesca fu il caso più eclatante ed eccellente, ma anche concettualmente dal momento che un tale atteggiamento nasconde la necessità di sintesi non solo formale ma anche ideale, come già spinse gli autori rinascimentali, in particolare di scuola michelangiolesca, all’anelito di perfezione armonica tramite l’inseguimento della regola aurea di ellenica ascendenza.
L’opera di Cezanne di questa ricerca della sintesi volumetrica ideale si nutre e per tale ragione sviluppa l’esigenza di una presenza cromatica contenuta che metta in risalto maggiormente forma e disegno, come pure l’impiego di alcune bordature blu di alcuni elementi paesaggistici tendono ad amplificarne il senso volumetrico. Questo processo d’indagine volumetrica è ciò che da origine al Cubismo, il quale non si accontenta più della frontale visione cezaniana, ma la fa esplodere in tutta la sua potenza mostrando la contemporaneità dei punti di vista nello spazio della rappresentazione, per medesima ragione anche in tutta la prima produzione dell’opera di Picasso (Pablo Picasso 1881-1973) e Braque (Georges Braque 1882-1963) l’impianto cromatico si presenta altrettanto contenuto, rischierebbe altrimenti di vanificare la costruzione volumetrica o di depotenziarla.
Mi rendo conto che la lettura che sto delineando in queste righe si pone, per così dire, come eretica rispetto alla storiografia artistica che vuole Cezanne e Picasso come due dei maggiori artefici dell’arte moderna, autori che nel mio discorso possono invece apparire più legati alla tradizione volumetrica il cui impianto affonda appunto le sue radici nella tradizione rinascimentale Italiana più forte e dalla quale si dipanerà la Metafisica dechirichiana prima e il Realismo Magico successivamente. Questo loro legame a tale tradizione tuttavia non diminuisce il loro apporto rivoluzionario, semplicemente rappresenta l’altra faccia di quella dicotomia tra positivismo e inquietudini che a esso si contrappongono e che da esso, in alcuni casi, scaturiscono. Già in seno al corpo illuministico, con la sua bruciante vitalità razionalistica, si fa strada l’inquietudine cupa e oscura del gotico che costituirà una parte importante dell’espressione romantica, seppure ancora intrisa degli afflati democratico-sociali illuministici. Afflati che evaporeranno nel Simbolismo e nel Decadentismo presagendo gli orrori bellici che segneranno il XX secolo e che essi, tramite poetica e atteggiamenti di costume sociale come il dandismo, imputano alla mediocrità e alla debolezza del pensiero borghese, che pure promosse il secolo dei lumi e le rivoluzioni ad esso legate.
Credo che le manifestazioni pittoriche, che dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso si sono fatte strada, ci costringano ad una ulteriore lettura delle vicende artistiche precedenti, come del resto sempre accade in presenza di nuovi fenomeni che pongono aspetti proiettando nuova luce rispetto agli eventi che li hanno preceduti. Le vicende storiche assumono così nuovi significati secondo la situazione temporale dalla quale si osservano, dato che tale situazione temporale in quelle vicende precedenti affonda le sue radici e da esse trae la sua ragion d’essere e la sua fisionomia, in un dialogo affatto univoco, dove non solo gli eventi presenti traggono identità da quanto li hanno preceduti, ma essi stessi assegnano ed evidenziano caratteristiche a quello stesso passato.
Questa nuova area, come detto, prosegue invece un percorso interrotto che ha conosciuto prosecuzioni a singhiozzo all’interno del corpo novecentesco a causa del suo appiattimento sulle posizioni dell’astrazione. Questa sua prosecuzione non ha intento citazionista, non si rivolge alla pittura quanto alla società e all’umano esistere e indagare. Proseguendo, anche in questo caso, il compito di analisi e termometro sociale che le esperienze ottocentesche avevano intrapreso. L’applicazione e l’impiego della materia non ricalca i canoni espressivi di quel secolo, semmai li prosegue in un genuino intento di ricerca che non necessariamente o sempre si lega ai favori del mercato artistico. Come si vedrà alcuni degli esponenti che saranno in seguito segnalati sono conosciuti e hanno riscontrato i favori del mercato, mentre altri sono ad esso completamente estranei, fatto tutt’altro che insolito in conseguenza di quanto sinora esaminato.
Certamente alcune delle questioni qui trattate potrebbero apparire contraddittorie, in particolare quelle in riferimento all’uso della materia pittorica per la quale il dipinto non finge di essere altro da sé, aspetto che potrebbe far confliggere quanto abbiamo sostenuto rispetto alla smaterializzazione dell’arte. Questioni che annoverano presunte modernità concettuali del panorama artistico. Per tale ragione il successivo intervento tratterà nello specifico questo tema, coinvolgendo più profondamente l’umano e la sua evoluzione.
Cercheremo poi di rintracciare quelle componenti ereditarie che a nostro modo di vedere hanno costituito i precedenti imprescindibili del nuovo sentire pittorico, introducendo infine alcune delle figure chiave di quello stesso sentire.
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