Peter Greenaway, Nightwatching, 2007
Seminario tenuto il 7 novembre 2020 presso la Fondazione Cassa di Risparmio di Jesi, all’interno del ciclo dal titolo Interventi attorno Chiari
Il cinema postmoderno
Certamente un esempio cinematografico eccellente di quelli che sono i canoni postmoderni è da rintracciarsi nell’opera del cineasta inglese Peter Greenaway. A parte rari casi di vicende più narrative, la gran parte della sua produzione si costituisce come continua citazione pittorica, tanto che lo spettatore, in assenza di comprensione di quelle medesime citazioni, faticherà a venire a capo del film, potendone vivere la sola esperienza estetica. In questo caso il film diviene un prodotto colto, che esente della connotazione narrativa popolare lo astrae dal rapporto sociale. Lo stesso cineasta ha dichiarato in più interviste come il suo intento iniziale fosse quello di fare il pittore, ripiegando poi sul cinema, ma intendendo e impiegando lo schermo cinematografico come tela pittorica.
Peter Greenaway, I misteri del giardino di Compton House, 1982 – Peter Greenaway, Lo zoo di Venere, 1985
Peter Greenaway, Il ventre dell’architetto, 1987 – Peter Greenaway, L’ultima tempesta, 1991
Quello appena descritto è un aspetto connotativo di tutto il linguaggio postmoderno, costituito della sola pellicola esterna, un’epidermide che cela un organismo inesistente e che spesso non ambisce a significati di alcun genere, se non quello della deflagrazione linguistica.
David Harvey (1935), in La crisi della modernità, indica come uno dei massimi esempi della postmodernità cinematografica Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders (1945), esponente con Herzog e Fassbinder del nuovo cinema tedesco degli anni Settanta. Ora è interessante notare come nel primo capitolo della sua trilogia, Alice nelle città, il cineasta agisse senza l’apporto di una sceneggiatura, identico processo seguì Moebius (Jean Giraud 1938), massimo autore della già citata Metal Hurlant, in una delle sue opere più note, Il Garage Ermetico. Ancora una volta la deflagrazione narrativa torna a farsi presente nel vero senso del termine, dove tutto si svolge sul solo piano del presente come espresso dal pensiero lyotardiano, interrompendo quella continuità temporale e progettuale che fu tipica dell’Illuminismo. E del resto l’angelo protagonista de Il cielo sopra Berlino deciderà di rinunciare alla sua condizione così da poter vivere, come dichiara nel film, l’ora, ora e ora. E ancora una volta non è certamente un caso che Wenders abbia scritto questo film in collaborazione con Peter Handke (1942), esponente dell’avanguardia letteraria tedesca, per il cui film scrive:
«Quando il bambino era bambino,
era l’epoca di queste domande.
Perché io sono io, e perché non sei tu?
Perché sono qui, e perché non son lì?
Quando comincia il tempo, e dove finisce lo spazio?
La vita sotto il sole è forse solo un sogno?
Non è solo l’apparenza di un mondo davanti al mondo
quello che vedo, sento e odoro?
C’è veramente il male e gente veramente cattiva?»
Lo scrittore, per le sue posizioni negazioniste rispetto le stragi avvenute in Jugoslavia per mano serba, è stato recentemente oggetto di aspre critiche a seguito del premio Nobel assegnatogli nel 2019 per la letteratura.
Wim Wenders, Il cielo sopra Berlino, 1987
Altra coincidenza è da rintracciare nell’opera Incidenti del fumettista italiano Mattotti, già appartenente al Gruppo Valvoline, che in quest’albo cita visivamente non solo la locandina cinematografica di Nel corso del tempo, altro capitolo della trilogia wendersiana, ma la cui vicenda è un’aperta citazione di Alice nelle città. E certamente esaminando il linguaggio di Mattotti si evince con evidenza come il suo alfabeto visivo si sia formato, ancora una volta, sulle esperienze pittoriche condotte dalle avanguardie storiche e di tanta parte della pittura francese dalla fine dell’Ottocento e primi del Novecento.
Wim Wenders, Alice nelle città, 1973 – Lorenzo Mattotti, Incidenti, 1996
Rimanendo nell’all’ambito del fumetto della fine degli anni Ottanta e i primi dei Novanta, una delle esperienze senza dubbio più eclatanti è quella che rivoluziona l’impianto tradizionale del fumetto supereroistico. Autori come McKean (Dave McKean 1963), Sienckiewicz (Bill Sienckiewicz 1958) e Ross (Alex Ross 1970) spingono ancor più sull’acceleratore delle ibridazioni materiche e citazioniste, in particolare i primi due il cui linguaggio diviene addirittura schizofrenico mutando continuamente registro all’interno della medesima vicenda narrativa. Mentre il linguaggio di Ross si dirige verso un universo figurativo d’impianto iperrealista, con slittamenti in un classicismo da Pittura Colta. Del resto l’universo supereroistico, composto di super uomini del tutto simili a semidei, si presta perfettamente a questo tipo di operazione. Questa rivoluzione non s’impose solo visivamente, ma fu più profonda, andando a smontare quello che sino allora era stato l’impianto narrativo tipico del genere. Alan Moore (1959) e Neil Gaiman (1960) sono i due scrittori che maggiormente contribuiscono a questo sconvolgimento, con un rovesciamento prospettico che precipita quegli eroi, sino allora fermamente buoni e necessariamente nel giusto, in una condizione anch’essa di schizofrenia che ne mostra i lati più oscuri. Se il Jocker, l’acerrimo nemico di Batman, è certamente un folle, siamo certi che Batman non lo sia altrettanto con il suo costume da pipistrello e con la sua convinzione di essere il paladino della giustizia? E chi potrà mai controllare dei superuomini? Chi ci assicura che facciano buon uso dei loro super poteri? Allora la metafora diviene chiaramente politica, sociale ed economica.
Dave McKean, Arkham Asylum, 1989
Bill Sienkiewicz, Elektra Assassin, 1986
Alex Ross, Marvels, 1994
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