Uno degli aspetti affascinanti della docenza è costituito dallo stimolo che lo studente suscita con interrogativi, affermazioni, aspetti della sua sensibilità che emergono dal disegno e dall’immaginario che lo costituisce e che sarà condiviso, generalmente, dai suoi compagni di corso. Questo mio intervento mi è stato suggerito da un discorso fatto pochissimi giorni fa con una studentessa, la quale affermava che non si possono fare troppe cose assieme, dato che si rischierebbe di non farne bene nessuna. Io, in sintesi e sul momento, risposi che dipende dalla personalità dell’individuo e dalle sue conoscenze, in sostanza dalla sua curiosità, è lei che ci spinge ad affrontare nuove esperienze e ad acquisire sempre più conoscenze. Mi venne poi in mente che discorso del tutto simile lo fece un altro mio ex studente diverso tempo prima. Ma questa affermazione, che è ben più diffusa e non certo comune ai soli miei due studenti, è vera? Vorrei qui rispondervi in maniera più meditata, riconducendo quell’affermazione su un piano storico.
Posta in una prospettiva storica tale affermazione verrebbe smentita per molteplici ragioni: la prima, l’esistenza sin dall’antichità dei cosiddetti uomini universali, termine coniato nel Rinascimento per indicare figure poliedriche della cultura, dell’arte e della scienza come, Aristotele, Eratostene da Cirene, Erasmo da Rotterdam, Leon Battista Alberti, Copernico, Michelangelo, Leonardo, Cartesio, Pitagora, Galileo, Diderot, Hugo, Giovambattista Della Porta, Kant, Marx, Newton, William Blake, Keplero, Thomas Jefferson, Einstein, Huxley, Bertrand Russell, per citare solo alcuni tra i nomi più noti dell’area occidentale; la seconda, è contrassegnata dallo stuolo di intellettuali di ogni epoca e area geografica che, per la loro curiosità e militanza culturale, si sono sempre rivelate figure attive in più ambiti, basti ricordare Pasolini, Calvino, Pirandello, Montale, per citarne pochissimi soltanto tra gli scrittori italiani del Novecento; La terza, la necessità che in ogni epoca ha imposto alle persone di cultura, e appartenenti alla varie discipline espressive, d’interagire con ambiti differenti. Era cosa comune che un pittore si servisse delle sue cognizioni visive in ambiti differenti da quello pittorico, aspetto che poteva essere dettato dalla necessità e allora in questo caso si veda come una parte sostanziale dei pittori ottocenteschi fossero dediti anche all’illustrazione di vario genere, narrativa, pubblicitaria, o all’arredamento e all’insegnamento, ma che poteva anche essere dettata da un’esigenza di ricerca che spingeva molti di essi a condurre indagini analitiche attorno agli argomenti visivi oggetto del loro lavoro, avviando così anche una carriera parallela saggistica o giornalistica e che poteva, appunto, anche fare il paio con aspetti docenziali.
Certo si potrebbe dire che una tale interdisciplinarità era un tempo consentita dall’inferiore numero di conoscenze prodotto dalla civiltà umana e che, in seguito, il suo accrescimento costrinse a una settorializzazione delle conoscenze. Dunque, se questo fosse totalmente vero, nei secoli successivi tale fenomeno sarebbe dovuto scomparire, costituisce invece un tratto comune di molte figure dell’Illuminismo, del Romanticismo e delle avanguardie storiche del Novecento.
Questo carattere, di artisti-intellettuali attivi in vari ambiti, è stato più diffuso sino alla metà circa del Novecento, per ridursi in maniera sensibile successivamente. Diviene dunque interessante domandarsi quale sia la ragione di questa riduzione. Avevo già trattato in precedenza di come una progressiva tendenza storica all’astrazione avesse condotto ad una scissione tra gli artisti e la società e ad un loro abbandono alla categorizzazione dei ruoli, all’interno della quale divennero esecutori di poetiche ordite dai critici, in un processo del tutto simile a quello delle operazioni di mercato dove il “prodotto” è pensato in base alle caratteristiche del target del mercato stesso (https://www.danilosantinelli.it/danilos-blog/2-il-processo-di-astrazione-nelleta-contemporanea/).
È proprio in coincidenza con la progressione del mercato – e in particolare a quello formatosi successivamente alla terza rivoluzione industriale avvenuta sul finire degli anni cinquanta e che intersecò il processo di digitalizzazione innescando nei primi anni Settanta la cosiddetta Era dell’Informazione caratterizzata dall’immaterialità dei prodotti economici – che tale riduzione si fa sempre più consistente. Ossia con il progredire di ciò che Galimberti chiama tecnica, dove con essa non intende l’utilizzo del computer, del telefonino e così via, ma l’incalzante necessità della funzionalità degli individui in una società sempre più improntata alla sola legge economica. Un processo, che a suo modo di vedere, si è innescato con più vigore in epoca illuminista a seguito della prima rivoluzione industriale e delle conseguenti mutazioni apportate nelle procedure meccanizzate del lavoro, della società, della mutazione paesaggistica che da rurale passa a un’urbanizzazione selvaggia. In un simile contesto la sopravvivenza degli individui è dettata dalla loro funzionalità al sistema di mercato, al di fuori del quale si è emarginati ed inesistenti, dato che i cosiddetti “valori umani”, che gli illuministi si sforzavano alacremente di promuovere e far sopravvivere*, non trovano spazio alcuno, costituendo anzi un impedimento per il mercato. Una posizione tanto più vera in una società dell’Informazione le cui pratiche economiche sono totalmente improntate sull’imposizione d’immaginari di consumo e, all’interno delle quali, i soggetti sono ingranaggi produttori e consumatori a un tempo, divenendo in sostanza prodotto essi stessi. Questo slittamento ha consentito e promosso l’ideologia del successo: industriale, artistica, culturale o di costume non importa, purché contrassegnata dal riconoscimento economico, senza il quale non si può avere valore e senza il quale, evidentemente, ciò che si compie è poca cosa se non a seguito di un’adeguata contropartita economico-remunerativa. Un’ottica, questa, in netto contrasto con molte delle vicende storico-biografiche di quelle personalità che oggi riteniamo fondamentali e indispensabili per la nostra evoluzione culturale e scientifica. Ma che spesso le si valutano senza dati biografici alla mano. Proprio perché in un’epoca e in una società sprovvista di personalità oggi viviamo, sempre che non si considerino tali quelle mediaticamente costruite secondo le modalità del marketing e della comunicazione e imperanti in ogni ambito disciplinare, dallo spettacolo, alla cultura, alla politica e, dunque, funzionali e promotrici del mercato anziché critiche rispetto ad esso. Un successo per se stessi e non comunitario, gretto e vile nella sua autoreferenzialità, unicamente orientato al riconoscimento economico personale, anziché orientato alla costruzione del patrimonio comune e del bene condiviso.
In un’epoca dominata dalla regola di mercato la natura indagatoria dell’esercizio culturale non può che essere percepita come ostacolo e impedimento, proprio in conseguenza degli interrogativi ch’essa ci pone. Si diviene dunque tanto più funzionali quanto più sprovvisti d’interrogativi e conoscenze. Ecco che la settorializzazione diviene allora “funzionale” ad un sistema di mercato anti-dubitativo, che non ha tempo da perdere con le peculiarità umane, dovendo giungere rapidamente all’obbiettivo della monetizzazione oltre tutto e tutti. Conoscenza e interdisciplinarità costituiscono per esso una minaccia e un’enorme perdita di tempo.
Per quanto mi concerne ho sempre concepito l’azione culturale come strumento critico-analitico, volto ad una progettualità di futuro differente, la cui finalità non può che essere l’emancipazione umana rispetto ai poteri coercitivi, siano essi politici od economici. Questa è l’unica funzionalità che comprendo perché rispondente all’umano, alla sua evoluzione civile ed etica, orientata ai benefici comuni anziché particolari, laddove invece la funzionalità tecnica non è che al servizio del particolare, successo compreso, tanto più idiota e banale perché servile del potere e del successo di qualcun altro più in alto nella gerarchia.
Ecco che allora, in questa prospettiva, pittura, docenza e divulgazione prendono un senso proprio in direzione della comunità, dell’emancipazione alla quale tutti vorremmo ambire, seppure, il più delle volte, con gli strumenti sbagliati che conducono al suo opposto, ossia a un assoggettamento sempre più stringente che, dietro l’apparente successo individuale, nasconde una disarmante arresa alle logiche del potere economico e alla sostanziale rinuncia ai compiti storicamente assegnati alla pratica culturale e artistica.
In un’epoca nichilista continuo a sognare il sogno dell’emancipazione, anche se la logica suggerirebbe che per esso nulla è più possibile, a questa logicità rifiuto di abbandonarmi rasentando, probabilmente, l’illogica e capricciosa follia del fanciullo che punta i piedi.
*Un aspetto che Galimberti probabilmente non condividerebbe, individuando nell’ideologia positivista proprio la radice dell’evoluzione e del sopravvento della tecnica.
Bibliografia
La redazione di questo articolo coinvolge aspetti personali del mio modo di essere e pensare, che certo si sono formati anche tramite le mie letture, sarebbe dunque insensato compilare una bibliografia con la totalità delle letture da me condotte sino ad oggi e dunque, in questo caso, vi rinuncio non potendo indicare quali di esse abbiano maggiormente formato il mio modo di pensare e d’intendere il mondo.