Hannah Höch, Cut with the Kitchen Knife Dada through the Beer-Belly of the Weimar Republic (particolare), 1919, collage of pasted papers, 90 x 144 cm, Staatliche Museen, Berlin
Nel 1916, a Zurigo, nasce il dadaismo, corrente che appartiene al gruppo delle cosiddette avanguardie storiche che segnarono e rivoluzionario il panorama artistico dei primi trent’anni del Novecento. Certamente il Dada, come già testimonia il nome dalla forte componente ludica e dalla dubbia origine, è tra le avanguardie artistiche del Novecento la più trasgressiva e irriverente. Quella stessa componente ironica, intrinseca già nell’identità nominale, è il fondamento ed il motore che le consente lo scardinamento di ogni forma di linguaggio, a partire, ovviamente, da quelli artistici visivi e non.
In questo suo processo di smantellamento del linguaggio, il dadaismo, interseca sia la terribile ascesa del nazismo, che l’evoluzione tecnica della fotografia. Sarà chiaro a chiunque come, mentre si fa strada il pensiero e il potere dittatoriale hitleriano, fosse complesso per un artista denunciare e prendere posizione rispetto agli eventi innescati dal nazismo. La volontà di denuncia dadaista trova una risposta potente proprio nell’incontro con il nuovo linguaggio fotografico che, sottoposto anch’esso all’azione ludica tipica di questa corrente, la conduce alla composizione dei frammenti fotografici di origini differenti, dando così vita al fotomontaggio. Ma il fotomontaggio ideato dal dadaismo è anch’esso intriso dell’astuzia e dell’ironica irriverenza tipica del ragazzaccio: esso impiega, infatti, quegli stessi materiali fotografici pensati e realizzati in origine come strumenti della propaganda nazista diffusa tramite gli organi di stampa. Cosicché la denuncia è proferita dagli stessi elementi che ne decantarono la propaganda. Insomma, Raoul Hausmannn (1886-1971), Hannah Höch (1889-1978) (1), John Heartfield (1891-1968), Max Ernst (1891-1976), ecc., fanno cortocircuitare il linguaggio di regime conducendolo al suo contrario, operazione che già di per sé è di un’ironia graffiante, proprio perché smonta il linguaggio del potere dall’interno, sovvertendone le grammatiche e minandone i significati ed i significanti. In sostanza, se il potere manipola la verità per ordire la propria propaganda, il dadaismo manipola la falsità del potere per ricondurla alla verità.
Ora, chi appartiene alla mia generazione, e avendo un immaginario forzatamente segnato dalla comunicazione televisiva, per anni ha assistito a un simile processo di cortocircuito del linguaggio mediatico. Forse non l’ha fatto coscientemente, ma nei fatti ha fruito per anni, e ancora oggi, un processo d’irriverente critica delle affermazioni prodotte dal potere tramite la diffusione televisiva e del tutto simile, nelle modalità, a quello originato molti anni prima dal dadaismo. Questa ripetizione ereditaria si è anzi potuta originare proprio grazie al precedente dadaismo, sino a costituirne una sua maggiore diffusione e normalizzazione. Mi sto riferendo al programma ideato da Enrico Ghezzi (1952) e Marco Giusti (1953), Blob (2) in onda sin dal 1989, il cui titolo è già manifesto delle sue intenzioni. Alcuni ricorderanno l’omonimo film di fantascienza (The Blob del 1958, regia Irvin Shortess “Shorty” Yeaworth, Jr.), da cui il programma trae il titolo, dove il Blob è costituito da una massa informe e gelatinosa che fagocita gli umani aumentando di volta in volta le sue dimensioni e che, Ghezzi e Giusti, sembrano mettere in relazione al continuo flusso d’immaginario prodotto dalla televisione che divora e si nutre degli spettatori e che, sempre tramite di loro, aumenta il suo volume di propagazione e di potere.
(2) Blob, di tutto di più, in onda dal 17 aprile 1989
Il programma è costituito da un collage di spezzoni di trasmissioni televisive differenti: varietà, telegiornali, quiz, ecc. La sequenzialità dei frammenti ordisce una narrazione inversa a quella di origine, cosicché Bruno Vespa, o chi per lui, svela la verità celata nella menzogna profusa mediaticamente.
Ghezzi e Giusti, dunque, hanno trasposto uno strumento di denuncia, e al contempo di resistenza al potere propagandistico, da un medium all’altro. Non sono certo i soli ad aver praticato questo tipo di operazione: a ben vedere, infatti, televisione e pubblicità continuamente attingono ai sovvertimenti linguistici apportati dall’arte per mantenere desto l’interesse dei fruitori e per vestirsi di un’innovazione solo apparente.
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